11/05/2015

Partecipazione alla II Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell'Assemblea parlamentare dell'Unione per il Mediterraneo ed intervento sul tema 'Immigrazione, asilo e diritti umani nella Regione euro mediterranea'

Grazie, Presidente Grasso. Tenterò ora di proporre alcuni elementi ulteriori che potrebbero contribuire al nostro dibattito.

Signora Presidente dell'Assemblea della Repubblica del Portogallo, Maria de Assuncao Esteves, Signori Presidenti di Parlamenti, Signore e Signori, è un onore essere qui tra voi oggi, com'è un onore poter intervenire su un tema così importante per tutti i nostri Paesi e di così stringente attualità.

Un tema che ci vede coinvolti in vario modo: alcuni Stati accolgono numeri enormi di rifugiati in fuga da violenze e persecuzioni; altri si trovano a fronteggiare gli arrivi via mare, in condizioni difficilissime, di decine di migliaia di persone; altri ancora ricevono la più parte delle domande d'asilo di chi riesce a raggiungere l'Europa.

Un tema che conosco ed al quale ho dedicato quindici anni della mia vita, da portavoce per l'Europa sud-orientale dell'Agenzia dell'ONU per i rifugiati, l'UNHCR. Un tema, infine, che è stato trattato anche nella recente Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell'UE, che, meno di un mese fa, ha visto riuniti a Roma molti di noi.

Possiamo affrontare le questioni dell'immigrazione e dell'asilo scindendole dal rispetto per i diritti umani, che sono alla base dei Trattati fondativi dell'Unione europea? Io ritengo di no. Un approccio meramente repressivo o difensivo nei confronti di un tale fenomeno sarebbe miope, inefficace e perfino controproducente.

Nel Mediterraneo, culla delle nostre civiltà, negli ultimi anni le tragedie si susseguono, inesorabili, una dopo l'altra. Se il numero di migranti che ha raggiunto fino ad oggi le coste italiane quest'anno è più o meno in linea con quello dello stesso periodo del 2014 -siamo intorno a 35mila- nei primi mesi del 2015 sono morte mille e ottocento persone, contro le novantasei dell'anno scorso.

Siamo dunque di fronte a quella che non esiterei a definire una vera e propria emergenza umanitaria, che si sta consumando sotto i nostri occhi e nel "nostro giardino". Nessuno credo possa più permettersi di rimanere a guardare, di lasciar correre, di disinteressarsi.

Il perdurare dei conflitti in Iraq ed in Siria, l'instabilità cronica in Somalia, la repressione in Eritrea, i conflitti mai risolti nell'Africa sub sahariana, il degenerare della situazione in Libia - e l'elenco non è in alcun modo esaustivo - spingono sempre più uomini, donne e bambini a rischiare la vita su imbarcazioni fatiscenti sovraccaricate all'inverosimile dai trafficanti. Trafficanti la cui priorità sono i guadagni e che si disinteressano completamente della sorte dei migranti. Se questi arriveranno o no dall'altra parte del mare non è certo una loro preoccupazione.

Nel 2014, nel quadro dell'operazione denominata 'Mare Nostrum', le navi della Marina militare italiana si sono spinte fin sotto le coste libiche per sottrarre alla morte chi tentava di raggiungere l'Italia. Dall'inizio dell'anno, 'Mare Nostrum' non è più operativa. E' subentrata l'operazione 'Triton' dell'Agenzia dell'UE per la gestione delle frontiere esterne, FRONTEX. Un'operazione molto più limitata di 'Mare Nostrum', sia per quanto riguarda la disponibilità di risorse e di mezzi, che per quanto concerne il mandato. 'Triton', infatti, è dedicata al pattugliamento delle frontiere dell'UE e non esclusivamente alla ricerca ed al soccorso in mare, ed è inoltre attiva solo nel raggio di trenta miglia nautiche dalle coste italiane. La maggior parte dei naufragi, purtroppo, avviene in acque territoriali libiche o internazionali.

L'Europa cosa può fare di più per limitare il costo in termini di vite umane? Dal Consiglio europeo straordinario di fine aprile, dedicato al tema dell'immigrazione nel Mar Mediterraneo, è emerso un primo riconoscimento della necessità di affrontare il fenomeno in maniera condivisa ed organica.

Tuttavia, come ha sottolineato pochi giorni fa il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, a questi primi passi devono seguire risposte più forti e concrete. E' quel che ci auguriamo accada con la nuova Agenda europea sulla Migrazione, il piano quinquennale dell'UE che verrà presentato dopodomani e che dovrebbe includere proposte fortemente innovative sulla ripartizione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri.

La decisione più incisiva presa dal Consiglio europeo di aprile è stata quella di triplicare i fondi stanziati per 'Triton', da tre a nove milioni di euro, ovvero la stessa cifra che l'Italia spendeva da sola per 'Mare Nostrum'. Permangono però le preoccupazioni riguardo all'area d'intervento dell'operazione, che, per essere realmente efficace, deve essere attiva ben oltre le frontiere europee, spingendosi al di là del limite delle trenta miglia nautiche. Se ciò non avverrà, molte altre vite umane andranno perse.

Se è fondamentale concentrarsi sul soccorso in mare, occorre però anche affrontare con nuovo slancio le cause alla base di questi movimenti forzati di popolazione, nonché dare un'alternativa concreta alle persone bisognose di protezione internazionale, che, altrimenti, continueranno a rivolgersi ai trafficanti. Vanno dunque moltiplicati gli sforzi per giungere ad un governo di unità nazionale in Libia, per porre fine alla guerra civile in Siria e per contrastare il sedicente Stato islamico in Iraq, nonché per coniugare aiuti allo sviluppo e diplomazia nelle complesse crisi in atto nell'Africa subsahariana.

La gravissima situazione umanitaria in corso in Siria e in Iraq grava principalmente sui Paesi confinanti. Limitarsi a donare aiuti umanitari - pure indispensabili - non è sufficiente. La sola crisi siriana ha costretto quasi quattro milioni di persone a cercare rifugio negli Stati limitrofi - Giordania, Libano, Turchia per citarne alcuni- mentre i richiedenti asilo siriani arrivati in Europa -nei 28 Stati dell'Unione europea - sono alcune decine di migliaia.

Occorre allora, colleghi, ritrovare il senso profondo di appartenenza ad un'unica comunità umana. E dunque occorre maggiore solidarietà sia nei confronti dei paesi extracomunitari, sia tra Stati dell'Ue. Insomma serve che l'Europa faccia la propria parte, ovvero che la facciano, assumendosi maggiori responsabilità, i Governi dei singoli Stati rappresentati nel Consiglio europeo. In questa prospettiva, si tratta di concedere, guardando a quanto accade fuori dai nostri confini, un maggior numero di visti umanitari, così come facilitare le riunificazioni familiari per i rifugiati che già sono in Europa o per coloro che in Europa hanno membri della propria famiglia. Si tratta anche di rafforzare i programmi di 'resettlement', o reinsediamento, e stabilire così un sistema di quote a livello europeo che permetta di trasferire persone, riconosciute dagli organismi internazionali bisognose di protezione, verso i singoli Stati dell'Ue. E sarebbe opportuno valutare l'ipotesi - proposta anche da autorevoli esponenti delle istituzioni europee - di permettere ai richiedenti asilo di presentare la domanda nelle ambasciate dei Paesi terzi. Queste misure vanno nella direzione di evitare i viaggi pericolosi attraverso il Sahara e le traversate del mare.

Inoltre, mi sento di dire che se l'Europa vuole proseguire il suo percorso di integrazione politica, il tema dell'asilo rappresenta uno dei primi terreni su cui concentrarsi per dare chiari segnali di cambiamento verso una prospettiva comunitaria. E questo significa anche essere disposti a cedere un po' della propria sovranità nazionale: adottare politiche comuni tra i ventotto Stati superando il Regolamento di Dublino; istituire centri d'accoglienza europei nei paesi che registrano il più alto numero di ingressi; fissare standard di protezione condivisi; stabilire quote di richiedenti asilo e rifugiati per ciascuno Stato dell'Unione. Oggi metà dei richiedenti asilo viene accolta da soli tre paesi: Germania, Svezia e Italia. Una situazione che va riequilibrata.

Queste azioni devono essere intraprese non solo perché l'UE e gli Stati membri che la compongono hanno degli obblighi legali e morali, ma anche per motivi pratici. Il traffico di persone è una conseguenza delle crisi umanitarie, non la causa. Se, dunque, è necessario perseguire fermamente chi lo gestisce e smantellare le reti internazionali che lo sottendono, non è agendo contro il sintomo che si guarirà dal virus. Insomma, bisogna lavorare sulle soluzioni reali non su scorciatoie apparentemente accattivanti, ma di fatto scarsamente efficaci. L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, António Guterres, lo ha ribadito con efficacia in un recente editoriale: 'Chi fugge per salvare la propria vita non si fermerà davanti agli ostacoli. Arriverá comunque. La scelta che abbiamo di fronte è con quale grado di efficacia sapremo gestirne l'arrivo, e con quanta umanità'.

Ciò che avviene nel Canale di Sicilia non è un problema italiano. Ciò che avviene in Giordania, in Libano, in Turchia, dove milioni di rifugiati affollano i campi profughi e le città, mettendo sotto pressione i sistemi sanitari, educativi, idrici, non è un problema di questi Paesi. La più grave crisi dei rifugiati dalla fine della seconda guerra mondiale interpella tutta la comunità internazionale.

Ed interpella in maniera particolare l'Europa. C'è chi esclama, soffiando sul fuoco populista: "Gli immigrati ci faranno perdere la nostra identità!". Ma la nostra identità si perderà se non agiremo. Se rimarremo inerti. Se chiuderemo le frontiere. Se non accoglieremo chi fugge da guerre e persecuzioni. La nostra identità, infatti, non è fondata sull'esclusione, ma sul valore dei diritti. Ed è questa identità che dobbiamo proteggere.

Vi ringrazio dell'attenzione.