03/10/2017
Montecitorio, Sala della Regina

Saluto introduttivo al reading ‘Bambini. Storie di viaggio e di speranza’, in occasione della Giornata Nazionale in memoria delle Vittime dell’Immigrazione

Buongiorno a tutte e a tutti.

Voglio salutare e ringraziare prima di tutto Valerio Cataldi per questa bellissima opportunità che ci ha offerto. E poi l'associazione Musei Migranti, la Rai, Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia, per avere voluto promuovere questa iniziativa qui alla Camera.

Saluto anche Filomena Albano, Presidente dell'Autorità Garante per l'infanzia e l'adolescenza. Mi fa piacere avere qui Giusi Nicolini, l'ex-Sindaca di Lampedusa che ho imparato a conoscere negli anni in cui lavoravo all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e passavo gran parte del mio tempo a Lampedusa. La ringrazio per come ha sempre saputo gestire la presenza dei migranti nella sua piccola isola.

Saluto e ringrazio anche i deputati e le deputate presenti; Lucia Annibali, che mi fa sempre piacere vedere alle nostre iniziative, la presidente Ferranti e tutti voi che avete deciso di essere qui oggi.

Ringrazio anche Geppi Cucciari, che è sempre disponibile e della quale noi approfittiamo spesso, perché è brava e con ironia sa far passare anche i messaggi più difficili.

Oggi è un anniversario triste, il quarto dalla strage di Lampedusa. Ma è anche il secondo anniversario della Giornata nazionale in memoria delle vittime delle migrazioni, che questo Parlamento ha voluto dedicare alle persone che non ci sono più.

L'abbiamo istituita con grande convinzione, anche grazie al sostegno delle associazioni che hanno lottato per questa legge e collaborato con noi. L'apporto della società civile è sempre molto importante. Se noi riusciamo a fare dei buoni provvedimenti è anche perché da fuori c'è una pressione, un accompagnamento, una motivazione.

Oggi a Montecitorio ricorderemo la strage con un reading musicale che si deve al tenace impegno di Valerio Cataldi.

Conosco Valerio da molti anni, con lui abbiamo vissuto e raccontato tante volte le migrazioni, cercando di far arrivare i messaggi giusti. Valerio non si è mai risparmiato, a volte andando controcorrente e senza tirarsi indietro anche quando le responsabilità erano difficili. Lui l'ha fatto in molte circostanze.

Dunque, qui oggi ascolteremo le storie di bambini migranti che Valerio ha raccolto insieme a Francesca Mannocchi ai confini dell'Europa.

Sono racconti di bambini che vengono da lontano. Immaginate quanto può essere difficile per i genitori staccarli dalle certezze, fargli fare un viaggio pieno di incognite, di pericoli. Vivere queste esperienze fa di loro dei bambini coraggiosi, eroici a volte, cresciuti molto in fretta.

I bambini di cui oggi ascolteremo le storie vengono dall'Afghanistan, dalla Siria, dall'Etiopia, dall'Eritrea e i loro racconti sono anche al centro della bellissima installazione a Vicolo Valdina, che vi consiglio vivamente di andare a vedere perché è più eloquente di tante nostre considerazioni.

Questa mostra ci fa capire che a migrare non sono numeri: sono persone, con un proprio percorso, un vissuto, una sensibilità. Non migrano numeri, migrano persone. Persone con insicurezze e angosce, con sentimenti che abbiamo anche noi. Solo che noi europei viviamo in un continente che da settant'anni è in pace.

Mettiamoci per un secondo nei panni di chi non ha più nessuna certezza, di una madre che di fronte allo sfacelo totale deve decidere se rimanere o andarsene e portare dietro la propria famiglia. Se noi riuscissimo a fare questo esercizio per pochi secondi cambieremmo il nostro atteggiamento verso chi scappa, e queste persone diventerebbero altro, anziché numeri.

Chi fugge non lo fa con leggerezza, non è una gita, non va a fare una scampagnata. Molti fuggono da regimi totalitari, come le 368 persone che il 3 ottobre del 2013 morirono a 500 metri dalla costa di Lampedusa. Dalla costa si vedeva la morte in diretta, le grida, la disperazione, le braccia alzate, la gente che andava a fondo davanti a questa nostra isola. Si tentò l'impossibile, ma 368 persone morirono. E nella mostra a Vicolo Valdina sono esposte le macchinine dei bambini, le carte di identità, gli occhiali, i santini, le borsette: c'è la vita di quelle persone.

Subito dopo la tragedia, andai subito a Lampedusa. Ero già Presidente e insieme ad altri deputati e deputate - presenti con una delegazione consistente - vedemmo qualcosa di veramente terribile: nell'hangar dell'aeroporto una fila sterminata di bare e poi arrivarono i parenti. Il loro pianto collettivo fu straziante.

Cercammo di farli piangere liberamente e di tenere fuori le telecamere: perché, se ti muore un figlio, non vuoi qualcuno che stia lì davanti a riprendere le lacrime, è una questione di rispetto. Non posso dimenticare quel pianto straziante che fu collettivo, spontaneo, era un abbraccio che si sollevava.

Questo quarto anniversario ci impone anche una riflessione sull'oggi. Nel 2017 sono morte 2.654 persone. Ma accanto a questa cifra nota ci sono i dispersi, ci sono i naufragi che non abbiamo visto, di cui non si saprà mai niente, perché sguarnendo il Mediterraneo di imbarcazioni si rischia di non vederle le tragedie.

Siamo sicuri che non muore più nessuno nel Mediterraneo? Magari si muore, ma non ce lo dice più nessuno. Non c'è alcun allarme perché il Mediterraneo è meno frequentato di qualche mese fa, ci sono meno testimoni tra chi si adopera per salvare vite umane.

Di fronte a questo noi dobbiamo farci delle domande. Sono diminuiti gli sbarchi. E' un dato di fatto, tutti ne abbiamo preso atto. C'è chi ne è molto felice e che chi è un po' preoccupato. Perché non basta tenere lontani i migranti per risolvere i problemi.

Credo che quando è in gioco la vita delle persone non possiamo dire "occhio non vede, cuore non duole". E penso che l'Europa, che è la culla dei diritti umani, debba farsi qualche domanda sul perché le persone non arrivano più.

Allora io mi chiedo: in Eritrea il regime di Afewerki ha cambiato attitudine, non costringe più intere generazioni ad andarsene via per non essere forzati a fare il servizio militare obbligatorio senza scadenza? E' successo che in Somalia Al Shabab è stato sconfitto e quindi adesso c'è sicurezza e non c'è più bisogno di fuggire? E' successo che in Nigeria Boko Haram si è ritirato, quindi i territori occupati sono stati liberati e non è più necessario scappare? E' successo che in Siria dopo quasi sei anni di conflitto non si muore più, non c'è più la guerra civile, anzi si ritorna? E' successo che finalmente in Africa, del Niger o nel Gambia, finalmente si è deciso di adottare una politica di ridistribuzione delle risorse capace di garantire un futuro? A me non risulta.

E nei rapporti delle Nazioni Unite vedo che in Libia oggi c'è oltre un milione di persone che hanno bisogno di aiuti umanitari. Tra questi ci sono 500.000 sfollati interni, quindi libici, ma poi ci sono anche 800.000 migranti.

Perché oggi queste persone non partono più? Ci sono cronache giornalistiche inquietanti che parlano di un "imbuto libico", di centri di detenzione, vere e proprie carceri dove vengono ammassate le persone. Una parte di questi centri è gestita dalle autorità, ma in gran parte sono governati dalle milizie. Questo ci restituiscono le cronache giornalistiche.

Ecco perché non posso smettere di preoccuparmi e sarò sempre più preoccupata, fino a quando non sarà possibile fare in modo che ci siano in Libia delle condizioni di accoglienza accettabili per gli standard internazionali e fino a quando si capirà che trattenere le persone non è la soluzione al problema. Il problema va affrontato alla radice, perché non basta trattenere le persone per risolvere la causa che è alla base della fuga.

Ci sono due motivi per cui queste persone affrontano la roulette russa del viaggio. Il primo è la mancanza di uno sviluppo umano in tanti paesi ricchi dell'Africa. Sviluppo umano vuol dire accedere all'acqua potabile, alle cure, andare in una scuola degna di questo nome. Questo significa sviluppo umano, non mandare qualche azienda a fare business, magari guadagnandoci pure perché il costo del lavoro è più basso. Lo sviluppo umano è cominciare dalle persone. E per farlo ci vuole un grande piano di investimenti, nel continente africano in particolare, ma non solo.

Il secondo motivo è legato alle decine di conflitti che vanno avanti da anni. Ricordate quali sono? Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan, Darfur: la lista potrebbe essere molto lunga, eppure non se ne parla più. Quei conflitti generano spostamenti di popolazioni. Per questo o si investe di più nei negoziati oppure non troveremo la soluzione a questa situazione.

Al tempo stesso noi dobbiamo fare un lavoro che ci riguarda direttamente. Gli Stati europei non possono continuare a ignorare che tradendo quei principi fondativi tradiscono il loro futuro. Esternalizzare il diritto d'asilo vuol dire voltare le spalle agli atti fondativi dell'Unione, perché il diritto d'asilo è uno di quei diritti considerati identitari per il nostro continente. Come lo è per noi italiani l'articolo 10 della Costituzione, uno degli articoli più aperti, che scavalca la Convenzione di Ginevra del '51. Parliamo di diritti che sono parte integrante della nostra civiltà e che non possiamo esternalizzare perché ci faremmo del male da soli.

Il fenomeno della migrazione va gestito. Tra i paesi dell'Unione Europea, quelli di Visegrad sembrano non recepire che essere parte dell'Unione non è solo prendere i fondi strutturali, ma anche condividere valori. Dunque, tutti dobbiamo fare la nostra parte nell'integrazione di migranti e rifugiati, che non avviene per bacchetta magica, non è una cosa spontanea. Noi dobbiamo lavorare di più su questo, investire risorse chiare.

Il Governo ha approvato un piano di integrazione condivisibile. Sono d'accordo sul fatto che chi viene da noi impari la lingua, che conosca i principi costituzionali. Ma integrare è un discorso a doppio senso. Lo Stato deve essere anche in grado di offrire gli strumenti necessari per questa integrazione e per farlo ci devono essere dei fondi dedicati. In questo piano non sono quantificate le somme che noi vogliamo dedicare al processo di integrazione.

Vi dico solo che la Germania, che ha accolto 1 milione e mezzo di rifugiati, ha fatto un investimento molto corposo: 20 miliardi di euro all'anno per 5 anni. E' un percorso molto rigoroso, ma alla fine del percorso quel milione e mezzo sarà un milione e mezzo di cittadini.

Non dico che dovremmo investire le stesse risorse, perché chiaramente non siamo in grado di farlo, ma dobbiamo investire risorse se vogliamo realizzare sul serio quell'integrazione necessaria alla coesione sociale. E' un passaggio indispensabile.

E poiché ho parlato di integrazione, chiudo questo breve saluto con l'auspicio che entro questa legislatura si possa approvare la legge sulla cittadinanza: che non è una legge ius soli. Questa legge non dice che chi nasce in Italia diventa italiano. Dice che chi nasce in Italia e fa un percorso di studi - almeno di 5 anni - può diventare italiano; dice che chi è figlio di genitori di cui almeno uno ha un permesso di soggiorno di cinque anni può diventare cittadino.

E' una legge che ha molte condizioni all'interno delle quali si sviluppa la cittadinanza.

Credo che non approvarla sarebbe un errore, una subalternità politica. Deluderebbe anche tanti giovani che ci hanno creduto perché era stato loro promesso e significherebbe anche non rispettare il lavoro delle molte associazioni laiche e cattoliche che tanto hanno investito in questo percorso.

Chiudo con una frase di Italo Calvino che penso sia in tema: "La memoria conta veramente - per gli individui, le collettività, le civiltà - solo se tiene insieme l'impronta del passato e il progetto del futuro". E diceva anche: "Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori".

Grazie per l'attenzione.