09/10/2017
Trieste, Università degli Studi, Rettorato

Lectio magistralis della Presidente Boldrini in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico del Liceo Petrarca dedicata a Giulio Regeni

Buongiorno a tutte e a tutti.

Questa è un'aula davvero imponente, mi dispiace che veda poco chi è in fondo, spero che mi sentiate tutti.

Saluto e ringrazio il Liceo Petrarca, che ha voluto invitarmi oggi ad inaugurare l'anno scolastico. Saluto la professoressa Cesira Militello, che è la Dirigente scolastica - ai nostri tempi era la Preside, io sono affezionata ancora a questa definizione; saluto anche il professor Guido Pesante, che ci ha appena illustrato il senso di questo incontro di oggi; tutti gli insegnanti e le insegnanti che sono qui presenti. Lo dico sempre, non mi stanco mai di ripeterlo: sono figure fondamentali della nostra società, sono presìdi di cultura e in molti territori sono anche presìdi di legalità, dunque le ringrazio e li ringrazio per tutto quello che fanno per il nostro paese. Saluto il Magnifico Rettore dell'Università di Trieste, l'ingegner Maurizio Fermeglia, che ci ha gentilmente ospitato qui oggi in questa bella Università. Saluto la parlamentare Serena Pellegrino, la Prefetta che è seduta accanto a lei, tutte le autorità presenti.

E poi un saluto e un abbraccio affettuoso ai coniugi Regeni: vorrei che si sentisse l'affetto di tutti noi per Paola e Claudio Regeni. Il loro figlio Giulio al Liceo Petrarca studiò per tre anni e poi andò al Collegio del Mondo Unito, che è una bellissima scuola che insegna ai ragazzi - come tante altre scuole - ad aprire gli occhi sul mondo e ad apprezzarne le differenze.

Ragazzi, spero di non essere troppo noiosa perché per voi sarà una mattinata impegnativa di ascolto. Mi è parsa una bella cosa accettare questo invito perché è un liceo che vuole solennizzare l'inizio dell'anno scolastico, vuole fare come si fa all'università. Io spesso vado in giro nelle università a inaugurare l'anno accademico. Vi giuro, è la prima volta che vado in un liceo - anche se siamo ospiti di un'università - ad inaugurare un anno scolastico con la stessa solennità dell'anno accademico. Mi piace, perché denota una certa auto-considerazione che fa di voi una scuola che ci tiene a farsi sentire e ad avere seguito.

La Preside prima diceva: l'educazione civica a un certo punto diventa 'Cittadinanza e Costituzione'. Quando io avevo la vostra età e facevo il liceo classico vi dico che l'ora di 'Educazione Civica' mi sembrava poco importante. Sbagliavo, ve lo dico subito, sbagliavo, perché non avevo colto il senso di quella materia. Il senso di quella materia era riuscire a capire di essere parte di una comunità.

Noi non siamo solo individui e persone: quella materia ci insegna a passare dall'"io" al "noi" e quando siamo "noi" siamo più forti, quando siamo "noi" ci facciamo rispettare di più, quindi quella materia è molto importante perché ci insegna ad essere buoni cittadini. E come si fa ad essere buoni cittadini? Ve lo sarete chiesto. Basta andare a votare una volta ogni 5 anni? Voi andrete a votare presto, siete della Quarta e della Quinta. Basta fare questo per essere buoni cittadini? No. Andare a votare è importante, ma non è l'unica cosa che si richiede per essere buoni cittadini.

Per essere buoni cittadini si richiede di avere il senso della collettività, saper stare insieme, dare qualcosa del proprio tempo per il bene comune. E che cosa è il bene comune? E' una cosa generica di cui parlano gli intellettuali, la politica? Il bene comune è qualcosa che ci riguarda, è il verde dei nostri parchi, la loro manutenzione. Il bene comune è il non lasciare nessuno indietro, i nostri vecchi: i nostri nonni passano ore e ore davanti alla televisione, lasciati soli. Non va bene. Loro sono un bene comune, perché ci raccontano, ci tramandano, ci consegnano la memoria, e la memoria è patrimonio.

Ieri alla Camera, ho ricordato una grande donna, Irma Bandiera, una bolognese che venne torturata per 7 giorni e 7 notti perché a 29 anni era staffetta, aveva deciso di mettersi a disposizione dell'idea di liberare il paese dal giogo nazifascista. Una ragazza che decise di farlo fino in fondo per l'ideale della libertà. Capite che vuol dire entrare nella Resistenza per l'ideale della libertà? Accettare anche di essere torturato e di morire per quell'ideale. C'erano ragazzi di 16, 17, 18 anni che entrarono nella Resistenza: una generazione che ci ha regalato la libertà e in nome di questo, a volte, ha perso tutto, anche la vita.

Per questo è importante capire che la solitudine in cui noi siamo precipitati in questi anni di crisi - ognuno preso dai propri problemi, ognuno preso a capire come migliorare la propria situazione - la solitudine non ci tirerà fuori dalla crisi. Noi usciremo dalla crisi quando sapremo ritrovare il senso di comunità, sapremo ritrovarci "paese"; dobbiamo ritrovarci come soggetti di uno stare insieme nel nostro quartiere, nella nostra scuola, nella nostra città e poi nel nostro paese, quando avremo la coscienza di essere "comunità".

Per fare questo abbiamo bisogno di ritrovare le nostre radici comuni, e le nostre radici comuni sono nella Costituzione, che nasce dalla Resistenza. La Costituzione è la nostra bussola, quella è il nostro GPS: ci orienta, ci indica la strada, non ci lascia mai soli. Avete un dubbio: "è giusto o no?" Aprite la Costituzione, lì trovate la risposta. Il testo che il primo gennaio avrà 70 anni non è un vecchio testo polveroso!

Gli italiani l' hanno difesa la Costituzione, l'hanno sempre apprezzata. E' un testo più che contemporaneo che vi aiuta a vivere, che vi aiuta a fare le scelte, che vi aiuta a rifiutare quello che non è giusto. Bisogna anche saper dire no quando si offre la scorciatoia, bisogna sapere anche fare le scelte perché giuste, anche se non sono convenienti: "è giusto, dunque lo faccio", anche se non è conveniente.

A me è stato chiesto di indicare due articoli. E' stata una richiesta un po' cattivella, perché è difficile sceglierne due. Io ne avevo quattro o cinque da ricordare qui con voi, che sarebbero stati tutti quanti importanti allo stesso modo. Ma dovevo commentarne due e mi sono attenuta rigorosamente.

Voi sapete che la nostra Costituzione è fatta di 'Principi fondamentali', dall'1 al 12. Lì sono i nostri codici comportamentali.

Poi c'è la 'Parte prima', che è dedicata ai 'Diritti e doveri dei cittadini': diritti e doveri, dal 13 fino al 54. Lì voi sapete quando vi dovete far rispettare, perché avete diritti. Ma avete anche doveri: non si può chiedere tutto al proprio paese senza dare nulla in cambio.

Non basta puntare l'indice: "questi politici, tutti uguali". Uscite dalle generalizzazioni, perché le generalizzazioni sono veramente la prova della incapacità a distinguere, sono la tomba della verità Non tutti gli studenti sono uguali: c'è chi è fatto in un modo e c'è chi è fatto in un altro; non tutti gli insegnanti sono uguali. Dunque generalizzare è un torto alla vostra intelligenza: dovete sapere sempre distinguere, non siamo tutti uguali.

Io oggi mi ritrovo a fare la Presidente della Camera, la terza carica dello Stato. Vengo da un'esperienza che mi ha portato per 25 anni a lavorare in tante parti del mondo, un'esperienza incentrata sui valori delle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite nascono dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, dalle ceneri dell'Olocausto. Da quelle ceneri ci siamo tutti rialzati e il mondo ha creduto che nel creare un forum superiore si potesse facilitare il mantenimento della pace. Io ho lavorato nelle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite e ho lavorato spesso nei contesti di guerra, nei contesti difficili.

Poi mi hanno chiesto di rappresentare questi valori, in cui credo, in Parlamento. Potevo dire no, era più facile: ma c'è un momento in cui bisogna restituire al proprio paese quello che si è acquisito nella vita, e l'ho fatto. E subito dopo sono stata eletta Presidente della Camera, ed è stata una grande sorpresa perché senza un'esperienza parlamentare mi sono ritrovata a gestire una istituzione così importante. Non è stato semplice, ma è stata anche una grande opportunità per riuscire a restituire e anche a mettere al centro le questioni sociali che sono di interesse dei nostri cittadini, le questioni che ci riguardano.

Ho cercato di concentrarmi sulla questione di genere, perché è una grande questione sociale: il paese non va avanti se le donne non vanno avanti. Mi sono concentrata sulla questione del web perché voi, ragazze e ragazzi, dovete vivere quello spazio in sicurezza, non sotto violenza, non sotto ricatto, in sicurezza. Me ne sono occupata e continuo a occuparmene.

Mi sono occupata di disuguaglianze: per questo uno degli articoli che ho scelto è l'articolo 3. Ho cercato anche di occuparmi di Europa, perché noi senza casa comune non avremo futuro. Ma questa Europa non ci piace tanto, e allora chi rappresenta le istituzioni deve cercare di migliorarla, questa Europa. Per voi, per i vostri figli, perché il nostro paese, l'Italia, non potrà mai essere competitivo nella sfera globale, da solo, senza una famiglia allargata . Abbiamo come competitors gli Stati Uniti, la Cina, l'India: dove andiamo senza una casa comune? Che però, come ho detto, deve essere rafforzata.

Ve l'ho anticipato, il primo articolo è l'articolo 3. E' bellissimo! E' un articolo che rappresenta il mondo come dovrebbe essere: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza" - brutta parola ma all'epoca si usava - "di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali." Perché ho indicato l'articolo 3? Perché oggi noi viviamo in un tempo di disuguaglianze. Bisogna capire che il tema diventa centrale, la lotta alle disuguaglianze deve diventare centrale, anche perché ce lo dice l'articolo 3 della Costituzione.

E deve diventare centrale perché su questo terreno c'è una gara a chi dà le soluzioni più strampalate: con lo slogan, con il tweet, si risolve tutto. Diffidate di chi risolve tutto in modo semplicistico. I problemi sono complessi - lo diceva il Rettore prima - le soluzioni non possono essere semplici. Il populismo ha sempre la risposta facile: c'è un problema, esasperiamolo, slogan e via, risolto. Per questo bisogna occuparsi delle diseguaglianze in modo serio: per non gettare benzina sul fuoco del populismo, che è un male del nostro tempo perché non ci aiuta a risolvere i problemi. Perché non ha interesse a risolverli: se le cose vanno meglio non c'è più rabbia sociale e se non c'è rabbia sociale non c'è più consenso.

Vi voglio dare un dato per spiegare la disuguaglianza: uno solo, non approfitto della vostra pazienza. Conoscete Oxfam? E' una rete internazionale di organizzazioni non governative che si occupa di lotta alla povertà. Voi potete dire: la povertà è una cosa che non ci riguarda. Ci riguarda eccome! La diseguaglianza ci riguarda tantissimo perché tocca il nostro paese in maniera molto forte.

In questo rapporto Oxfam fa degli esempi semplici: dice che per arrivare alla ricchezza della metà povera del pianeta - divide il pianeta in due: la metà povera e la metà ricca - l'anno scorso ci volevano 62 persone, i più ricchi del mondo. I 62 più ricchi del mondo avevano la stessa ricchezza di 3 miliardi e 600 milioni. Passa un anno e arriviamo al 2017: ora bastano i primi 8. Bastano gli 8 più ricchi del mondo per avere la stessa ricchezza della metà povera del pianeta. Cioè 8 persone hanno le stesse ricchezze di 3 miliardi e 600 milioni di persone. Come si regge il mondo così?

Oxfam è un'associazione umanitaria, e trova questo scandaloso. Ma alla stessa conclusione arriva anche il World Economic Forum, che è la voce delle grandi imprese della terra, i ricchi. Le grandi imprese, le multinazionali, che cosa dicono? Anche loro dicono che la diseguaglianza è il grande problema su cui soffermarsi.

Io trovo normale che anche il World Economic Forum arrivi a questa conclusione: perché, se le persone non hanno la possibilità di acquistare, quante cose devono comprare queste 8 persone più ricche del mondo? Come si fa a pensare che la concentrazione di ricchezza serva a rilanciare l'economia?

L'economia si rilancia se c'è ridistribuzione della ricchezza, se tutti possono avere quello che serve per una vita dignitosa. Se manca questo, non c'è ripresa economica. Quindi la diseguaglianza non è solo un grande problema etico, e per me già basterebbe. La diseguaglianza è anche un problema economico. Se non si esce da questo schema è difficile che l'economia possa riprendersi.

Fatemi fare qui la prima 'dedica', per così dire, di questo nostro incontro a Giulio Regeni, perché Giulio Regeni era un giovane uomo consapevole, aveva allargato la lente subito e io credo che lui sentisse insopportabile questa disuguaglianza. Insopportabile. E allora aveva deciso di mettersi in gioco, appunto, di non stare a guardare che qualcun altro facesse qualcosa, ma di fare lui qualcosa. Era uscito dalle sue certezze, dal suo ambiente familiare, per volare e per essere un attore del cambiamento.

Per questo noi eravamo così orgogliosi di lui, di quello che faceva, quando abbiamo conosciuto la sua storia. Io non ho conosciuto Giulio, ho conosciuto i suoi genitori, ma penso che a ispirare chi vuole il cambiamento ci siano delle figure. Ognuno di noi ha avuto delle figure che hanno segnato la vita e la strada da prendere, perché è difficile capire quale sia la strada giusta.

Per esempio, io credo che una di queste figure potrebbe essere stato - uso il condizionale perché non lo so se è stato così, per me lo è stato - un grande imprenditore, Adriano Olivetti. Un imprenditore che mise in atto la sua visione di società, vi consiglio di conoscerne la filosofia imprenditoriale. Adriano Olivetti voleva che lo sviluppo fosse condiviso, che il lavoro fosse fonte di avanzamento per chi lo metteva in atto: il lavoro non solo come salario ma come modo di evolvere, e l'azienda mette al servizio di chi ci lavora la possibilità di evolvere.

Lui diceva che "nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minimo". Non più di dieci volte: il grande dirigente ha più responsabilità, ha più lavoro, e dunque è giusto che guadagni di più. Ma ci deve essere un limite a questo guadagnare di più: il limite per lui era dieci volte. Sapete oggi quanto è la proporzione tra l'impiegato, l'operaio e il dirigente? Immaginatelo, ditemi voi quanto è, ditemi una cifra. All'epoca, negli anni '60. Olivetti diceva 'dieci volte va bene'. Secondo voi a quanto siamo arrivati? 30, 50, a quante volte siamo arrivati in proporzione? Lo so che non azzardate, infatti è spregiudicato azzardare. Alla cifra non ci si arriva con il buon senso. Oggi la proporzione è 400 volte in più, 500 volte in più. Questo vuol dire che grande manager, un top manager guadagna in un mese quello che un operaio guadagna in 40 anni. Si può reggere una società così?

E l'operaio almeno un lavoro ce l'ha; perché poi c'è il precariato, c'è tutta la questione del precariato che qui non voglio affrontare ma che, temo, capiterà anche a qualcuno di voi. Questa è la disuguaglianza. E questo crea rabbia, questo crea frustrazione, questo crea solitudine, perché non si capisce come siamo arrivati a questa sproporzione, a questo divario, a questa forbice così ampia. Questo è un acido che corrode la nostra democrazia, perché su questo poi, come dicevo, c'è chi si insinua per indebolire la nostra democrazia.

Quando io avevo la vostra età - oramai parecchi decenni fa - non era così. Io sono nata negli anni '60, quindi ho fatto le scuole negli anni '70. I nostri genitori parlavano - le vostre insegnanti avranno sentito questi discorsi in famiglia, penso - dell''ascensore sociale'. Che cosa è l'ascensore sociale'? Era quel sistema per cui se nasci in una famiglia che non ha mezzi, che non ha risorse, ma sei bravo, ti fai valere, credi nel tuo progetto, vuoi fare qualcosa nella vita e sai che è importante studiare e andare avanti, ecco, quel progetto si può realizzare. Questo è 'l'ascensore sociale'. I nostri genitori facevano sacrifici, perché non tutti potevano permettersi il figlio o la figlia all'università, ma era possibile, si andava avanti, nella scala sociale si saliva. Non c'era differenza di ceto: se nasci in una famiglia contadina il tuo destino è scritto? No, tu sei artefice del tuo destino: se studi, se sei capace, se hai la volontà, se credi nei valori, tu puoi andare avanti, non ci sono ostacoli.

Adesso quel meccanismo si è inceppato, non funziona pi. E ne risente la democrazia quando non c'è la possibilità di fare quel percorso, perché quel percorso è lo specchio della democrazia: vuol dire che, in democrazia, ognuno può farcela, nulla è precluso. Quel meccanismo si è inceppato. E allora vengo alla seconda parte dell'articolo 3. Guardate, è bellissima. Perché la prima parte, quella sull'uguaglianza, ce l'hanno in tante altre Costituzioni, ma la seconda parte invece, il secondo comma, è una novità tutta nostra di cui noi dobbiamo essere orgogliosi. Perché dice, la seconda parte, che "E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale" - cioè la Repubblica lo deve fare, deve fare in modo che tutti possano avere le stesse possibilità - che " limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini".

Come facciamo a essere uguali se ci sono degli ostacoli che in partenza ci differenziano? Non è giusto, non c'è cosa più ingiusta che fare parti uguali tra chi è diseguale, come diceva Don Milani. Allora quegli ostacoli bisogna rimuoverli, e la Repubblica ha il compito di rimuoverli perché in democrazia tutti devono avere le stesse chances, le stesse opportunità.

Nel nostro paese le disuguaglianze hanno volti diversi. Qui siamo al nord, ma la disuguaglianza nel nostro paese ha anche il volto del Sud. La disuguaglianza nel nostro paese ha anche il volto dei giovani: c'è una disuguaglianza tra le persone anziane che vorrebbero andare in pensione e non riescono ad andarci e i giovani che non riescono pienamente ad accedere al mondo del lavoro. Anche questa è una disuguaglianza, di tipo generazionale.

E allora la domanda è: avete fatto abbastanza voi - cioè noi - per rimuovere quelle disuguaglianze, avete fatto quello che la Costituzione chiede alla Repubblica? La risposta è: non abbastanza, è evidente, non abbastanza perché altrimenti noi non ci troveremmo in questa situazione.

Io ho la mia idea e ve la dico: credo che per rimuovere la disuguaglianza bisogna iniziare dal lavoro dei giovani, che è la primaria causa di disuguaglianza nel nostro paese. Perché questo? Perché il lavoro - e io parlo di lavoro, non di una qualche forma di occupazione; parlo di lavoro, non di precariato - il lavoro dà alla persona la dignità, il lavoro ti permette di costruirti un percorso, una vita, il lavoro di permette di pensare a fare una famiglia, di crescere dei figli.

Ci sono oggi ragazzi attaccati al telefonino in attesa di un sms: li chiamano jobs on call, una forma cinica di occupazione saltuaria che non porta a niente, e questo non è giusto. Non è giusto per il nostro paese, non è giusto per le nostre figlie e i nostri figli: non possiamo consegnare un paese che non dà una prospettiva.

Montesquieu diceva una frase molto significativa: "Allo stato naturale tutti gli uomini nascono uguali, ma non possono continuare in questa uguaglianza. La società gliela fa perdere, ed essi la recuperano solo grazie alla legge". La legge, cioè l'intervento dello Stato, serve per far recuperare l'uguaglianza. Se quell'intervento non c'è, o se c'è e non è sufficiente, l'uguaglianza non si recupera.

Allora serve la politica, perché il mercato da solo non si gestisce, il mercato non ha interesse a guardare chi sta male, chi è bisognoso: il mercato fa profitto, è la politica che dovrebbe avere la capacità di gestire e di arginare le disuguaglianze. E se non lo fa, ha delle responsabilità.

Serve anche che venga riconosciuto il giusto ruolo ai lavoratori e alle loro rappresentanze. Sempre l'articolo 3 dice che ci deve essere "l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese".

Lo voglio sottolineare empre riferendomi a Giulio Regeni. Giulio Regeni è andato in Egitto per occuparsi delle organizzazioni sindacali di quel paese. Dunque è andato a occuparsi delle storture di un sistema. Perché, vedete, se non c'è la possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di organizzarsi in modo indipendente è difficile che le loro condizioni migliorino, è molto difficile.

Come vi dicevo, ho lavorato in molti paesi, e quando non ho trovato i sindacati è perché c'era la dittatura. La democrazia ha bisogno di tante componenti sociali, dei corpi sociali, la democrazia si basa sul confronto, il confronto si fa con le associazioni, si fa con le formazioni sindacali, si fa da ogni parte della società, con le associazioni imprenditoriali, con i cittadini organizzati. Per questo penso che l'esistenza di sindacati liberi sia un test essenziale per capire il livello di democrazia di un paese.

Ed è chiaro che Giulio aveva capito che in Egitto c'erano grossi problemi riguardo al sindacato, e aveva capito anche che la crescita della democrazia avviene attraverso la crescita della organizzazione sindacale dei lavoratori. In quel paese aveva capito che tutto questo incontrava enormi ostacoli.

Un'altra disuguaglianza di cui non vi ho parlato finora è quella di genere. Vi ho detto che c'è una diseguaglianza economica, poi territoriale, generazionale, e adesso arriviamo alla diseguaglianza di genere. L'articolo 3 dice che: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso." Poi c'è anche l'articolo 51, che parla della stessa cosa ma la riferisce alla vita istituzionale e pubblica. Dice cioè che non c'è differenza per accedere agli uffici pubblici - uomini e donne possono farlo - così come alle cariche elettive - uomini e donne hanno le stesse possibilità di essere eletti. Non c'è differenza. E dice anche che a tale fine, per promuovere l'uguaglianza di genere, "la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini."

Tutto bene, allora? Lo dice la nostra Costituzione, noi siamo convinti che vada tutto bene, e allora non c'è più nulla di cui discutere? No, la nostra Costituzione lo dice ma non siamo affatto in condzione di dire che va tutto bene.

Io credo che nel nostro paese ci sia una cappa, su tutto quello che riguarda le questioni delle donne, una cappa. Si dice: "non ce n'è più bisogno, è roba sorpassata, per carità! Se ne parlava negli anni '60 e '70. Oramai ci sono uguali diritti per tutti". Io non sono d'accordo, non è affatto così. Sottotraccia c'è tanto di misoginia, di avversione verso le donne, e c'è ancora tanta, tantissima discriminazione.

Sono i dati a dircelo. Sapete quante donne lavorano in Italia, in percentuale? Meno del 50%. Vorrebbero lavorare, le donne, ma il 49 % lavora, le altre no. Le altre vogliono lavorare? Vorrebbero lavorare. Le donne escono con i voti più alti dalle scuole, arrivano prime ai concorsi, ma poi c'è un blocco per entrare nel mondo del lavoro, ancora di più per accedere alle cariche, ancora di più alle carriere, andare avanti.

Ma secondo voi è possibile vivere in una società in cui c'è ancora questo tipo di discriminazione, lo ritenete possibile? I dati dimostrano che quando le donne lavorano il PIL aumenta, la produttività aumenta, ma si storce il naso a farle lavorare.

Quando lavorano poi che cosa succede? Quando lavorano succede che devono farne più di uno, di lavoro, perché ancora non è entrato nella mentalità di questo paese che se si ha una famiglia gli oneri sono da condividere tra uomo e donna. Perché una donna deve lavorare 8 ore fuori e poi deve lavorare altre 4-5 ore in famiglia mentre il proprio marito, il proprio compagno si sente esente da questo obbligo? Chi lo ha scritto? Perché questo blocco culturale? Guardate che questo è un arretratezza molto italiana, rifletteteci. Se ci sono degli oneri domestici bisogna condividerli, non è che le donne nel dna hanno scritto che se ne debbono occupare loro.

E' dalla condivisione che nasce l'armonia, una donna non è che si deve sfiancare per fare il lavoro retribuito, poi il lavoro domestico, poi occuparsi dei suoi genitori, poi anche di quelli del marito. No, bisogna che ci sia una redistribuzione.

E poi c'è il tema della violenza: una donna ogni tre giorni viene ammazzata per mano di chi dovrebbe amarla, è la violenza travestita da amore. Io mi rivolgo a voi per dirvi che la violenza è una condizione da rifiutare sempre, nessuno può accettare di vivere con la violenza, chi usa violenza non sa amare. Non fraintendete la violenza con l'amore, non c'è nulla di amorevole nella violenza.

Se una donna lavora è più libera anche di uscire dal contesto violento, per questo è importante che le donne lavorino. Non solo è importante per il paese, perché se le donne lavorano il PIL aumenta, ma è anche importante che le donne autosufficienti economicamente possano sottrarsi dal contesto violento.

Io dico che questa battaglia sulla violenza la devono fare prima di tutto gli uomini, i ragazzi. Perché chi è che usa la violenza? Sono gli uomini, sono i ragazzi a farlo. Quindi sono loro il problema, loro dovrebbero capire che usare violenza contro una donna è una loro incapacità, un loro limite. Questo dimostra la rozzezza, il non sapere dialogare in modo paritario. Non avere forza delle idee dimostra un pensiero debole: io uso la violenza perché è l'unico modo con cui posso avere la meglio su di te, perché non ci arrivo con la testa.

Allora questi violenti devono essere messi all'angolo. Chiedo a tutti i ragazzi e agli uomini che non sono violenti di metterli all'angolo, di non mischiarsi con loro, di essere al nostro fianco nella battaglia contro la violenza. La violenza sulle donne è principalmente una disfunzione orribile degli uomini e gli uomini consapevoli, non violenti, devono essere in prima linea in questa battaglia insieme a noi donne.

Io mi stupisco ogni volta che parlo di questo tema, vedo anche alla Camera che la deputate rispondono, ma non c'è mai un deputato. Come se le cose non riguardassero gli uomini. Ma chi deve riguardare la violenza sulle donne, se non gli uomini?

La violenza sulle donne è uno dei punti su cui dobbiamo lavorare di più, perché denota l'arretratezza della nostra cultura, del nostro paese. Certo, non è un problema solo dell'Italia, ma è un problema che qui da noi non viene affrontato fino in fondo, che viene affrontato solo dalle donne.

Poi c'è un'altra questione, quella del linguaggio. Guardate, il linguaggio non è secondario, perché denota molte cose. Se io accetto di dire 'contadina' quando una donna lavora la terra, nessuno dice "non si dice contadina". Quando una donna è in fabbrica, io la chiamo 'operaia'; e nessuno dice: "non si dice operaia, c'è il maschile che va bene per tutti". Saliamo la scala sociale: quando arriviamo a 'avvocata', per carità!, "è brutto, suona male"; 'ingegnera' malissimo, 'rettrice' non ne parliamo. 'Primaria' men che meno. Ma come? Si dice infermiera al femminile, si potrà dire anche primaria. Si dice operaia, si potrà dire anche amministratrice delegata.

Perché c'è questo rifiuto quando si sale la scala sociale? E' "la" dirigente scolastica, è femmina. Quindi, essendo la nostra una lingua neolatina, l'Accademia della Crusca - che è la più alta istituzione grammaticale del nostro paese - ci dice che tutte le cariche vanno declinate al femminile.

Bene, io con soddisfazione vedo che adesso si inizia a dire anche a Montecitorio 'la deputata', 'la Ministra', sui quotidiani si fa così. Per 70 anni a Montecitorio non esisteva il femminile, eravamo tutti 'deputati', maschi, o 'ministri', o 'sottosegretari'. Ci sono voluti 70 anni perché io chiedessi di introdurre il femminile alla Camera dei deputati.

Quello che non si dice non esiste: se le donne esistono, devono essere rispettate nel loro genere. Io non voglio cambiare genere perché sono Presidente della Camera: io sono la Presidente, non il Presidente. E le donne devono essere orgogliose di affermare il loro genere, il loro percorso, di avercela fatta. Perché se io mi chiamo al maschile, io non esisto come donna.

E in Aula che succede? Ci sono alcuni deputati che ancora mi chiamano 'signor Presidente'. Bene, io rispondo dicendo "Grazie, signora deputata" e allora tutti ridono come voi state ridendo. Ma per me è ridicolo anche che quello mi chiami 'signor Presidente', perché evidentemente non sono un uomo, e se io non sono un uomo esigo di essere rispettata come donna. Non è una cosa secondaria.

Quando arrivano le delegazioni straniere, francesi o spagnole, e io parlo di questo, non possono credere che stiamo ancora a questo punto, che da noi non si usi la terminologia al femminile spontaneamente e che bisogna ancora fare una battaglia culturale su questo. Ma noi non ci stancheremo, ve lo garantisco.

Alla Camera, quando sono arrivata, mi hanno fatto vedere tutte le sale conferenze, le sale delle Commissioni, i corridoi. E c'erano tante belle immagini, quadri e busti di uomini, certo importanti per il nostro Risorgimento. Tranne che per il busto di Nilde Iotti, non c'erano immagini di donne della Repubblica. Le nostre Madri della Repubblica non erano rappresentate, come se non fossero mai esistite.

Come faccio a chiedere a voi quante erano le donne che hanno scritto e collaborato a scrivere la Costituzione, le donne della Costituente, se non le avete viste rappresentate? E allora ho pensato che dovevo fare la "Sala delle donne", e l'ho fatta, per compensare questo squilibrio.

In una parete ci ho voluto mettere le 21 Costituenti, che nel 1946 entrarono a Montecitorio, le prime donne elette in Parlamento. Il fascismo, voi sapete, congelò l'avanzamento della donna nella società; il fascismo voleva che la donna fosse madre e moglie, non doveva avere nessun ruolo sociale. Aveva bloccato il processo delle suffragette, che in altri paesi era iniziato a fine Ottocento e che era iniziato anche in Italia a fine Ottocento.

Noi abbiamo delle magnifiche figure di suffragette, e abbiamo anche un uomo illuminato, Salvatore Morelli, che nel 1867 decise di fare una proposta di legge per il voto alle donne. Non vi dico come venne dileggiato e trattato, il povero Morelli, fu lo zimbello.

Noi ci siamo arrivati molto tempo dopo, al voto alle donne: ci siamo arrivati nel 1946 con la fine del fascismo, quando l'Italia decise che voleva la Repubblica. Ci siamo arrivati molto in ritardo, proprio perché il fascismo aveva congelato l'avanzamento delle donne nella società. Morelli è l'unico uomo che sta nella Sala delle Donne, e se lo merita: è stato il primo femminista della storia, e mi ha fatto tanto piacere avere il suo busto, che abbiamo chiesto a un artista che lo ha fatto con tanto convincimento.

In una parete ho messo le 21 Costituenti. In un'altra le prime 11 Sindache, elette nel 1946. Pensate che nessuno sapeva se fossero state elette o no, chi fossero. E' stata fatta una ricerca negli Archivi di Stato. Erano 11, erano bellissime figure di donna.

In una terza parete abbiamo messo la prima donna Ministra: era il 1976, si chiamava Tina Anselmi, una grande donna, partigiana. Fino ad allora, fino al 1976, c'erano stati 36 Governi - parliamo di 30 anni - 36 Governi e 836 ministri. Tutti rigorosamente uomini. Ma vi rendete conto? La Repubblica italiana aveva avuto per tre decenni governi formati da soli uomini. Ci vuole Tina Anselmi per rompere questo soffitto di cristallo. Accanto a lei c'è Nilde Iotti che nel '79, tre anni dopo, viene eletta Presidente della Camera, ed è la prima volta di una donna. E a seguire, nell'81, c'è anche una donna alla guida di una Regione: Nenna D'Antonio.

Nella quarta parete ho messo tre specchi: perché volevo anche mettere il ritratto della prima donna Presidente del Senato, della prima donna Presidente della Repubblica e della prima donna Presidente del Consiglio, ma evidentemente non avevo le foto, perché nessuna donna mai ha potuto accedere a queste cariche. Quindi ho messo tre specchi, e accanto un piccolo cartello con la scritta: "nessuna donna ha mai ricoperto questo incarico: potresti essere tu la prima". Sopra due articoli, 3 e 51, gli stessi di cui parliamo oggi. Quando le scolaresche vengono le ragazze fanno tutte lì la fila per farsi la foto con sotto la scritta Presidente della Repubblica, del Consiglio o del Senato. E' un modo per fare empowerment, per dire alle ragazze che se studiano, se credono in loro stesse, se vogliono impegnarsi per il paese possono farlo, non ci sono ostacoli.

Noi non siamo all'anno zero su questo tema, evidentemente. In questa legislatura il 30% dei deputati - qui ne abbiamo una presente, Serena Pellegrino - sono donne. Abbiamo anche un Governo che ha donne in dicasteri importanti, ma la parità è ancora molto lontana.

Vi dico solo che abbiamo bisogno di uno scatto culturale. Io vorrei che nel nostro paese avvenisse quello che è accaduto in altri paesi, anche a livello politico: perché la politica deve fare da traino del cambiamento, non andare dietro, fare da scorta, deve saper pilotare i cambiamenti, fare da apripista.

Quando il premier canadese, Trudeau, è venuto alla Camera ha fatto un bel discorso e lui in quell'occasione si è definito 'femminista': "insegno ai miei figli e alle mie figlie a essere femministi perché essere femminista vuol dire fare in modo che in questo paese, in ogni paese, non ci siano discriminazioni tra uomo e donna". E allora tutti dovremmo esserlo. Anche l'ex presidente degli Stati Uniti Obama più volte si è definito femminista. Io sono ancora in attesa di sentire un uomo politico italiano che si definisca femminista. Ancora non ne ho sentito nessuno, ma ci arriveremo.

La battaglia noi la dobbiamo portare avanti non solo per noi, ma per tre quarti di umanità femminile che ancora oggi non ha diritti. Noi in Europa siamo sicuramente ancora nella posizione di dover ottenere il meglio, però una strada l'abbiamo fatta. Ricordiamoci sempre che ci sono tre quarti di umanità femminile che ancora quei diritti non li ha. La nostra battaglia deve essere anche per quelle donne.

Io chiudo dicendo a Paola e Claudio Regeni che c'è una parte del nostro paese che non dimentica - io mi includo in questa parte del paese - non dimentica quello che si deve sapere. Noi dobbiamo sapere che cosa è successo a Giulio Regeni. Non solo perché lo dobbiamo a voi genitori, ma perché lo dobbiamo a tanti giovani che da questa storia hanno preso ispirazione, a tante persone che si aspettano un riscontro.

Questo è uno di quei casi in cui la ragion di Stato e la verità vanno in parallelo: perché è la dignità del paese che vale. La Ragion di Stato corrisponde con la verità, perché se non ci sarà verità sarà il paese a uscirne male, a testa bassa e con le ossa rotte. Quindi io continuerò, noi continueremo a perseguire questa verità, perché questa verità è qualcosa di necessario per riuscire anche a passare il messaggio a tutti i giovani che ci sono cose su cui non si può negoziare. Il rispetto dei diritti umani, per quello che mi riguarda, non è negoziabile. Mi associo a questa domanda di verità e giustizia che voi portate avanti e che siamo in tanti a portare avanti.

In conclusione, ragazzi e ragazze, vi dico che voi avete davanti oggi molte sfide. Ma ogni generazione ha avuto le proprie, ogni generazione ha avuto dei problemi da affrontare, non esiste una generazione che abbia trovato tutto tranquillo e tutto fatto.

Ai nostri genitori è toccato il compito, davvero non facile, di risollevare un Paese dopo il fascismo, un'Italia devastata dal punto di vista materiale - c'erano macerie ovunque - ma anche dal punto di vista morale. Avevamo preso parte alla vergogna: le leggi razziali vennero votate dal Parlamento, totalmente esautorato dal fascismo; prendemmo parte alla Shoa. La Resistenza ci riscattò, le partigiane e i partigiani ci riscattarono e i nostri genitori hanno avuto il compito di rimettere in piedi il paese e la dignità.

Poi ci siamo stati noi, nati negli anni '60. Noi abbiamo dovuto fare i conti con il terrorismo. Io mi ricordo che quando andavamo a scuola, ogni giorno qualcuno veniva ammazzato: i giudici, le forze dell'ordine, i giuslavoristi, i professori, i politici. La gente veniva ammazzata, il rapimento di Moro fu un momento in cui lo sentii alla radio ed ebbi paura. Parlammo di questo in classe: "lo Stato ce la farà o vinceranno loro?" Non è facile convivere con il terrorismo di casa propria. Eppure ce l'abbiamo fatta, perché ci fu un muro di popolo contro il terrorismo, la gente scese in piazza, i sindacati scesero in piazza, i partiti, tutti fecero qualcosa contro il terrorismo. Non c'era apatia, non c'era rassegnazione, c'era riprendere in mano le sorti del paese.

E adesso voi avete due sfide. Una è quella di portare l'Europa fuori dal guado. Il disegno europeo è un grande disegno, solo che adesso è bloccato, non dà il meglio di se e c'è da portare questa Europa fuori da una situazione che non riesce a dare quello di cui c'è bisogno. Voi avete il compito di fare molto di più per questa Europa e dare slancio a questa Europa. E poi dovete anche dare al nostro Paese la possibilità di essere un attore del cambiamento, un attore dell'innovazione.

Queste due cose dovete fare come obiettivo per riuscire a contare e lasciare un segno. Allora bisogna buttarsi, ragazzi: non si lascia un segno pensando solo alle proprie cose. Per lasciare un segno bisogna 'sporcarsi le mani', bisogna fare politica, bisogna entrare nelle associazioni, bisogna farsi sentire, essere costruttivi, non nichilisti, non essere solo contro. Si può essere contro con una proposta. Voi adesso avete davanti obiettivi che vi richiedono la partecipazione. E più c'è partecipazione, più la democrazia è forte. Io vi auguro di fare questo percorso, di crederci, di dare il meglio di voi, di non delegare a nessun altro e di contribuire a rendere concreta la nostra bella Costituzione.

Grazie.