Torino, Aula Magna della Cavallerizza dell'Università degli Studi
'Lecture Altiero Spinelli' della Presidente Boldrini sul tema 'Completare l'integrazione europea: l'unica via possibile'
Signor Rettore, Signor Sindaco, dottor Palea, Autorità, membri del corpo docente, Signore e Signori, è un onore per me essere qui oggi. Lo è per gli illustri relatori che mi hanno preceduta nello svolgere le Lectures Spinelli promosse dal Centro Studi sul Federalismo, la cui direzione ha voluto invitarmi e che ringrazio; lo è perché, tra pochi mesi, celebreremo il trentesimo anniversario della morte di Altiero Spinelli - qui raffigurato, peraltro, in un'immagine che mi emoziona vedere accostata al mio nome, con la mano alzata mentre vota al Parlamento europeo. Infine, è per me un onore essere qui perché la decima Lecture Spinelli 2015, pur pronunciata con qualche settimana di ritardo, cade in un momento che non esiterei a definire cruciale per le sorti dell'Europa.
Lo affermo mentre si riunisce il Consiglio europeo, che sta prendendo decisioni importanti sull'assetto dell'Unione. Lo affermo anche a pochi giorni dalla presentazione ufficiale della candidatura della Bosnia-Erzegovina a fare ingresso nell'UE, una candidatura che dimostra quanto, pur in un momento di crisi, la prospettiva europea rimanga ancora fortemente attrattiva. Lo affermo all'indomani dell'importante dichiarazione di Papa Francesco, che ha espresso tutto il suo apprezzamento per una "rifondazione" dell'Unione europea e però si è chiesto anche dove siano oggi personalità equivalenti agli Schuman e agli Adenauer di ieri.
Lo affermo, infine, a pochi giorni dalla mia visita ufficiale in Grecia, il Paese dove, a mio avviso, si sta definendo il destino del nostro continente. In una Atene nuovamente scossa dalla protesta sociale - con migliaia di agricoltori in piazza Syntagma che manifestavano contro l'ennesima riforma delle pensioni - ho incontrato i vertici delle istituzioni della Repubblica ellenica, impegnati a raggiungere un difficile equilibrio tra le richieste delle cosiddette 'istituzioni' creditrici e la necessità di alleviare il disagio sociale causato da quasi sei anni di gravissima crisi economica e di tagli allo stato sociale.
Ho voluto poi visitare Lesbo, l'isola dell'Egeo dove, l'anno scorso, sono sbarcate mezzo milione di persone, il sessanta percento degli 850mila uomini, donne e bambini in fuga da guerre e persecuzioni che hanno cercato la salvezza in Europa attraversando quel braccio di mare. In Europa, ribadisco, non in Grecia, perché la Grecia è parte integrante dell'Unione e perché è a Lesbo che inizia l'Area Schengen. Perché Lesbo oggi è un simbolo dello sforzo della gente comune per tenere fede agli ideali europei. E da Lesbo, oggi, giunge un grido d'allarme rivolto all'Unione: "Lesbo chiama Schengen!", come ho voluto sottolineare indossando uno delle migliaia di giubbotti salvagente raccolti sulle spiagge dell'isola e divenuti un simbolo. Un simbolo utilizzato anche dall'artista cinese Ai Weiwei, che di recente ha cinto la Konzerthaus di Berlino con 17mila giubbotti trasportati da Lesbo.
Cosa significa "Lesbo chiama Schengen"? Significa che dalla risposta che gli Stati daranno a questo allarme dipenderà il futuro dell'Unione europea. Il salvagente che ho voluto indossare non rappresenta dunque solo lo sforzo di quest'isola, ma anche quello che l'Europa intera dovrebbe compiere per non perdere i propri valori e per non colare a picco. L'Europa ha bisogno di quel salvagente, perché se tradirà i propri valori, non ci sarà alcun appiglio a cui potrà aggrapparsi.
A Lesbo ho voluto incontrare Emilia, Mariza e Efstratya, le tre donne immortalate da una ormai celebre fotografia mentre nutrivano con un biberon e cullavano un neonato appena sbarcato, infreddolito e affamato. Il mio omaggio a queste tre donne è stato un omaggio a tutto il popolo greco, che ha accolto un flusso così imponente di persone, lasciando aperte le frontiere, come dettato dal diritto internazionale ed europeo. La Grecia, nel salvare ed accogliere i rifugiati, non ha violato le regole europee; la Grecia ha difeso i valori europei.
Le voci che circolano sempre più insistentemente e le minacce più o meno esplicite al governo greco parlano di una 'mini-Schengen', di un nucleo di Paesi membri del centro e del Nord Europa pronti ad espellere la Grecia - e l'Italia - dall'area di libera circolazione che è una delle conquiste principali dell'Europa e la cui chiusura anche parziale, peraltro, avrebbe dei costi altissimi - circa l'1% del PIL della zona Schengen, secondo le stime - per tutti gli Stati coinvolti. Paesi pronti ad espellerne altri dall'Area Schengen perché attuano uno dei principi fondanti dell'Unione, quello del non-respingimento dei rifugiati.
Un'ipotesi che non esito a definire spaventosa, com'è spaventoso l'invio, da parte di alcuni Stati europei, di forze di polizia al confine greco-macedone, dove il flusso di migranti subisce restrizioni sempre maggiori e che si vorrebbe sigillare per 'proteggere le frontiere esterne dell'Europa'. Non posso - per il mio passato alle Nazioni Unite, per i sentimenti di umanità che dovrebbero guidare chi ricopre cariche istituzionali - non chiedermi: da chi dovremmo proteggere le frontiere? Dai bambini, dalle donne, dagli uomini cui siamo obbligati, in base ai Trattati che abbiamo sottoscritto, a garantire protezione? Sarebbe questa la soluzione del problema, anziché affrontare alla radice la guerra in Siria, il caos in Somalia, la dittatura in Eritrea?
Se cade Schengen, cade l'Europa. Lo si è ripetuto in tempi di crisi della moneta comune: se cade l'euro, cade l'Europa. E' ancora più vero se riferito alla libera circolazione delle persone, il cuore del progetto europeo. Beninteso, è evidente che dobbiamo rafforzare i controlli alle frontiere, ma dobbiamo farlo agendo insieme nel rispetto dei diritti umani, ad esempio attraverso una Guardia costiera europea, non inviando forze di polizia con il mandato di sigillare i confini.
Non è infatti l'arrivo dei rifugiati a mettere in pericolo la nostra identità; è la chiusura delle frontiere, il rifiuto dell'accoglienza, che renderà vuoti i principi che costituiscono la base della nostra convivenza. Non è la diversità che distruggerà la nostra società, bensì la paura.
Chi invoca queste misure dà ragione alle grida dei populisti che vorrebbero distruggere quanto è stato costruito negli ultimi decenni per tornare, in maniera anacronistica e velleitaria, alle 'piccole patrie'. Tra di essi, tra chi invoca fili spinati e muri, vi sono i leader di alcuni Stati membri che forse vorrebbero disgregare il progetto europeo. Non si comprende, allora, perché abbiano voluto con tanta forza entrare a far parte di questa famiglia.
I populisti offrono risposte facili ed illusorie alle domande ed alle richieste dei cittadini, domande e richieste che non possiamo però ignorare e cui dobbiamo saper dare seguito in maniera concreta. I cittadini europei ci chiedono a gran voce di saper gestire il flusso di migranti; di voltare pagina rispetto alle politiche economiche che hanno contribuito a causare l'impoverimento di ampi strati del ceto medio. Reclamano una prospettiva di futuro per i loro figli. Io stessa mi auguro di non dovere, un giorno, raccontare ai miei nipoti - se mai ne avrò - che "c'era una volta l'Europa", un continente dove si poteva circolare, lavorare e studiare liberamente. Un progetto che, per loro, non esisterà più.
Il mio passato professionale m'impone ora di ricordare alcuni dati. Le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo sono oggi sessanta milioni, l'equivalente della popolazione italiana, di cui meno del 2% ha raggiunto l'UE. In Libano, un quarto della popolazione di poco più di quattro milioni di abitanti è costituito da rifugiati. In Turchia, sono oltre 2,5 milioni. E noi rischiamo di compromettere il più grande progetto europeo dalla fine della Seconda Guerra mondiale perché lo scorso anno, in un continente di 500 milioni di abitanti divisi in ventotto Paesi, è arrivato un milione di rifugiati?
All'inizio della crisi dei rifugiati la Commissione europea ha proposto misure innovative e coraggiose. Con l'Agenda europea per le migrazioni ed il piano di cosiddetto ricollocamento, veniva meno, per la prima volta, il principio su cui si fonda l'attuale sistema d'asilo europeo: quello, cioè, in base al quale l'individuo che chiede asilo in Europa deve farlo nel primo Paese europeo in cui fa ingresso. Una parte degli Stati Membri, tuttavia, si è opposta al piano e ne boicotta apertamente - e impunemente - l'attuazione. I Paesi inadempienti non sono la Grecia e l'Italia, ree di non aver istituito con la dovuta celerità i centri d'identificazione, i cosiddetti 'hotspots', ma gli Stati che si rifiutano di accogliere i richiedenti asilo da ricollocare. E' bene ricordarlo, prospettando anche misure sanzionatorie, come la decurtazione dei fondi europei.
Questa Europa, incapace di rispondere alle grandi sfide globali, è come una macchina vecchia, una macchina bella e gloriosa il cui motore però procede ormai a singhiozzo. Una macchina che ci ha portato molti benefici che oggi diamo per scontati: la libertà di movimento, una valuta comune, la possibilità di lavorare in tutti gli Stati membri, i fondi strutturali europei, utilizzati per vivere in città più pulite, per ristrutturare i borghi, per promuovere un'agricoltura di qualità. Questa macchina, questo motore vanno dunque sostituiti con un'automobile più competitiva, un modello nuovo, sostenibile, in grado di portarci lontano e suscitare la passione delle nuove generazioni.
Per costruire questo modello nuovo ognuno di noi è chiamato, oggi, a fare la propria parte.
L'estate scorsa, quando le cronache già ci raccontavano la morte quasi quotidiana di uomini, donne e bambini annegati alla ricerca di una vita migliore in Europa, quando i giornali erano pieni di analisi sulle misure d'austerità imposte alla Grecia per poter accedere ai fondi necessari per l'ennesimo salvataggio, decisi che non potevo rimanere inerte.
Cominciai chiamando il Presidente del Parlamento lussemburghese. Gli chiesi se potevo coinvolgerlo, in quanto rappresentante del Paese che deteneva la Presidenza del Consiglio dell'UE, nella firma di una Dichiarazione. Accettò con entusiasmo, come fece anche il Presidente Bartolone dell'Assemblea nazionale francese. Con meno speranze di ricevere una risposta positiva, contattai il Presidente del Bundestag, Lammert. La sua reazione fu, invece, entusiasta. A New York, alla Conferenza mondiale dei Presidenti di Parlamento, mettemmo a punto il testo. Un risultato non scontato, date le differenze di vedute tra i nostri rispettivi Paesi e le diverse famiglie politiche di appartenenza.
Meno di due mesi dopo, il 14 settembre scorso, ci riunimmo a Roma, alla Camera dei deputati, davanti a tanti ragazzi dell'ERASMUS, per sottoscrivere una Dichiarazione che dice in modo molto chiaro che, per affrontare le sfide globali - cambiamento climatico, flussi migratori, gestione del web, lotta al terrorismo - :
1) abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa;
2) dobbiamo avere il coraggio di condividere sovranità in ampi settori in cui l'azione dei singoli Stati è ormai del tutto inadeguata a fronteggiare le sfide globali;
3) dobbiamo puntare prioritariamente al rilancio della crescita e dell'occupazione;
4) non possiamo più ignorare la dimensione e l'impatto sociale delle misure economiche e finanziarie;
5) dobbiamo avere come obiettivo la creazione di una Federazione di Stati, nella prospettiva, aggiungo io, degli Stati Uniti d'Europa.
All'inizio di dicembre sono stata a Bruxelles ed ho presentato la dichiarazione, anche a nome degli altri firmatari, ai Presidenti Martin Schulz e Jean-Claude Juncker, i quali hanno accolto con grande interesse e favore questa iniziativa.
Siamo partiti in quattro. Oggi ho il piacere di annunciarvi che le firme di Presidenti di Assemblee legislative dell'UE sono undici.
Ho voluto però coinvolgere in questo processo anche i cittadini, per chiedere loro direttamente quale Europa vogliono. Per questa ragione ho avviato lo scorso 12 febbraio sul sito della Camera dei deputati una consultazione pubblica sullo stato e le prospettive dell'Unione che sta registrando un significativo numero di partecipanti. Credo fermamente che la rappresentanza democratica non si indebolisca dando la parola ai cittadini, ma anzi, che così facendo si rafforzi. Vi invito dunque tutti, cari professori e cari studenti, a dire la vostra partecipando alla consultazione che resterà aperta sino a metà maggio.
Illustrerò i primi risultati della consultazione nel corso della prossima Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti a Lussemburgo, che si svolgerà a fine maggio e nel corso della quale contiamo di raccogliere altre adesioni alla Dichiarazione, che figurerà tra i temi ufficiali in discussione. Successivamente un comitato di saggi, composto da economisti, statistici, politologi e giuristi esperti di Unione europea, procederà ad un'analisi approfondita degli esiti della consultazione e predisporrà una relazione entro giugno o luglio 2016.
La relazione costituirà la base per la elaborazione di un nuovo Progetto federalista (che ho voluto chiamare Progetto EUtopia), che sarà presentato a fine agosto 2016 a Ventotene, nel corso di un evento organizzato da associazioni di giovani federalisti ed al quale prenderò parte personalmente.
Come potrete comprendere da quanto vi ho detto, intendo seguire una precisa roadmap europeista che miri a risultati concreti e che ci conduca verso gli Stati Uniti d'Europa.
Insomma, ragazzi, non bisogna farsi scoraggiare! Fin dalle sue origini questo progetto ha sfidato l'impossibile. E' nato sotto le bombe, nel 1941, mentre gli europei si dilaniavano nella guerra. Eppure è andato avanti, si è concretizzato, grazie alla tenacia di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi, di Eugenio Colorni, di Ursula Hirschmann.
Spinelli ebbe a sottolineare che la grandezza degli ideali politici si manifesta nella capacità di aprire cammini nuovi. Il percorso europeo ed europeista è sempre stato caratterizzato da una serie di stop and go. Quindi per percorrere il nostro cammino dobbiamo dare risposte chiare ed effettivamente praticabili ad alcune domande sul futuro assetto dell'Unione federale.
La prima è: chi dovrà far parte della Federazione europea?
Sarei felice se tutti i 28 Stati membri procedessero insieme verso l'integrazione politica, ma non ignoro le difficoltà e soprattutto temo l'immobilismo. Non va dunque esclusa una Europa a due velocità o a circonferenze concentriche, in cui si proceda ad una integrazione più stretta tra un gruppo di Stati, lasciando agli altri la possibilità di aderire in un secondo momento. In questa prospettiva, l'eurozona potrebbe costituire l'avanguardia per una integrazione politica, purché si doti di politiche e figure istituzionali - veri e propri ministri - volte primariamente al perseguimento della crescita, dell'occupazione e dell'inclusione sociale, e non soltanto al controllo sulle finanze pubbliche ed all'attuazione di riforme strutturali.
La seconda è: di quali politiche e di quali mezzi dovrà disporre la Federazione europea?
Ritengo che la Federazione dovrà essere dotata di ampie competenze esclusive, a partire da tutti i settori in cui l'azione dei singoli Stati risulta inadeguata ad affrontare le grandi sfide globali. Ma non possono esistere politiche federali senza i mezzi per attuarle, senza un bilancio federale adeguato, finanziato da autentiche risorse proprie e capace di sostenere l'emissione di titoli per promuovere grandi progetti di interesse europeo. Chi, giustamente, lamenta l'inadeguatezza della risposta europea alla crisi, paragonandola a quella di altri partner globali, dovrebbe ricordare che attualmente l'UE ha un bilancio pari a meno dell'1% del PIL europeo, mentre il bilancio federale americano è pari al 25% del PIL complessivo degli USA!
La terza domanda è: come assicurare che le istituzioni federali, che queste nuove figure istituzionali, abbiano legittimazione democratica?
Questo obiettivo si consegue superando il metodo intergovernativo ed attribuendo piene competenze legislative, di indirizzo e controllo ad un Parlamento europeo - a 28 o dell'eurozona - eletto sulla base di liste transnazionali, identiche per ciascun partito europeo in tutti gli Stati membri. Solo in questo modo supereremo l'idea per cui anche in seno al Parlamento europeo il criterio della nazionalità prevale su quello dell'orientamento politico. Solo in questo modo avremo veri partiti politici europei in grado di animare il dibattito politico intorno a priorità europee e non a questioni di mera rilevanza interna. Le elezioni europee devono cessare di essere banchi di prova per i Governi nazionali ed i rappresentanti che siedono nel Parlamento europeo devono tutelare gli interessi dell'UE, non quelli nazionali. Perché gli interessi nazionali coincidono - devono coincidere - con quelli europei! E solo un'Europa politica, pienamente legittimata, può essere quell'Europa sociale che riduca finalmente le diseguaglianze. Non può essere la tecnocrazia a farlo; queste scelte sono proprie della politica.
La quarta domanda, strettamente connessa alla precedente è: può esistere una Unione politica e legittimata democraticamente senza un "demos" europeo, un popolo che si senta partecipe di un destino comune?
La risposta è: no! Occorre una comunità fondata sulla condivisione di valori e principi, e quindi su una cittadinanza comune che attribuisca, effettivamente, eguali diritti e doveri.
In questa prospettiva bisogna riconoscere che l'istituto della cittadinanza europea previsto dai Trattati vigenti è chiaramente inadeguato perché si tratta di un mero accessorio della cittadinanza nazionale, da cui è derivata. Occorre dunque costruire una nuova cittadinanza europea, che consenta a tutti di apprezzare concretamente il valore aggiunto della costruzione europea, mutandone radicalmente la percezione attuale, che è quella di un entità lontana e insensibile alle condizioni di vita delle persone.
Penso ad esempio ad un reddito minimo di cittadinanza europea, che il bilancio europeo o dell'eurozona erogherebbe a tutti i cittadini che vivono una condizione di indigenza. Con una misura di questo tipo si riaffermerebbe il principio che l'Europa, patria dei diritti umani, non abbandona nessuno al proprio destino.
Inoltre, bisognerebbe armonizzare le condizioni per l'acquisizione della cittadinanza nei vari Stati membri, anche da parte di persone non comunitarie.
Signore e Signore, per poter garantire ai nostri figli un futuro prospero, un futuro di pace e stabilità, non abbiamo alternative: dobbiamo batterci con forza per un'Europa più unita e più forte. Il tempo stringe. Bisogna agire e ognuno - come ho cercato di dimostrare - deve fare la sua parte: i Governi, i Parlamenti, i cittadini.
Il Manifesto di Ventotene si chiude con una frase che consegno a tutti voi: "La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà".
'Lecture Altiero Spinelli' della Presidente Boldrini sul tema 'Completare l'integrazione europea: l'unica via possibile'
Signor Rettore, Signor Sindaco, dottor Palea, Autorità, membri del corpo docente, Signore e Signori, è un onore per me essere qui oggi. Lo è per gli illustri relatori che mi hanno preceduta nello svolgere le Lectures Spinelli promosse dal Centro Studi sul Federalismo, la cui direzione ha voluto invitarmi e che ringrazio; lo è perché, tra pochi mesi, celebreremo il trentesimo anniversario della morte di Altiero Spinelli - qui raffigurato, peraltro, in un'immagine che mi emoziona vedere accostata al mio nome, con la mano alzata mentre vota al Parlamento europeo. Infine, è per me un onore essere qui perché la decima Lecture Spinelli 2015, pur pronunciata con qualche settimana di ritardo, cade in un momento che non esiterei a definire cruciale per le sorti dell'Europa.
Lo affermo mentre si riunisce il Consiglio europeo, che sta prendendo decisioni importanti sull'assetto dell'Unione. Lo affermo anche a pochi giorni dalla presentazione ufficiale della candidatura della Bosnia-Erzegovina a fare ingresso nell'UE, una candidatura che dimostra quanto, pur in un momento di crisi, la prospettiva europea rimanga ancora fortemente attrattiva. Lo affermo all'indomani dell'importante dichiarazione di Papa Francesco, che ha espresso tutto il suo apprezzamento per una "rifondazione" dell'Unione europea e però si è chiesto anche dove siano oggi personalità equivalenti agli Schuman e agli Adenauer di ieri.
Lo affermo, infine, a pochi giorni dalla mia visita ufficiale in Grecia, il Paese dove, a mio avviso, si sta definendo il destino del nostro continente. In una Atene nuovamente scossa dalla protesta sociale - con migliaia di agricoltori in piazza Syntagma che manifestavano contro l'ennesima riforma delle pensioni - ho incontrato i vertici delle istituzioni della Repubblica ellenica, impegnati a raggiungere un difficile equilibrio tra le richieste delle cosiddette 'istituzioni' creditrici e la necessità di alleviare il disagio sociale causato da quasi sei anni di gravissima crisi economica e di tagli allo stato sociale.
Ho voluto poi visitare Lesbo, l'isola dell'Egeo dove, l'anno scorso, sono sbarcate mezzo milione di persone, il sessanta percento degli 850mila uomini, donne e bambini in fuga da guerre e persecuzioni che hanno cercato la salvezza in Europa attraversando quel braccio di mare. In Europa, ribadisco, non in Grecia, perché la Grecia è parte integrante dell'Unione e perché è a Lesbo che inizia l'Area Schengen. Perché Lesbo oggi è un simbolo dello sforzo della gente comune per tenere fede agli ideali europei. E da Lesbo, oggi, giunge un grido d'allarme rivolto all'Unione: "Lesbo chiama Schengen!", come ho voluto sottolineare indossando uno delle migliaia di giubbotti salvagente raccolti sulle spiagge dell'isola e divenuti un simbolo. Un simbolo utilizzato anche dall'artista cinese Ai Weiwei, che di recente ha cinto la Konzerthaus di Berlino con 17mila giubbotti trasportati da Lesbo.
Cosa significa "Lesbo chiama Schengen"? Significa che dalla risposta che gli Stati daranno a questo allarme dipenderà il futuro dell'Unione europea. Il salvagente che ho voluto indossare non rappresenta dunque solo lo sforzo di quest'isola, ma anche quello che l'Europa intera dovrebbe compiere per non perdere i propri valori e per non colare a picco. L'Europa ha bisogno di quel salvagente, perché se tradirà i propri valori, non ci sarà alcun appiglio a cui potrà aggrapparsi.
A Lesbo ho voluto incontrare Emilia, Mariza e Efstratya, le tre donne immortalate da una ormai celebre fotografia mentre nutrivano con un biberon e cullavano un neonato appena sbarcato, infreddolito e affamato. Il mio omaggio a queste tre donne è stato un omaggio a tutto il popolo greco, che ha accolto un flusso così imponente di persone, lasciando aperte le frontiere, come dettato dal diritto internazionale ed europeo. La Grecia, nel salvare ed accogliere i rifugiati, non ha violato le regole europee; la Grecia ha difeso i valori europei.
Le voci che circolano sempre più insistentemente e le minacce più o meno esplicite al governo greco parlano di una 'mini-Schengen', di un nucleo di Paesi membri del centro e del Nord Europa pronti ad espellere la Grecia - e l'Italia - dall'area di libera circolazione che è una delle conquiste principali dell'Europa e la cui chiusura anche parziale, peraltro, avrebbe dei costi altissimi - circa l'1% del PIL della zona Schengen, secondo le stime - per tutti gli Stati coinvolti. Paesi pronti ad espellerne altri dall'Area Schengen perché attuano uno dei principi fondanti dell'Unione, quello del non-respingimento dei rifugiati.
Un'ipotesi che non esito a definire spaventosa, com'è spaventoso l'invio, da parte di alcuni Stati europei, di forze di polizia al confine greco-macedone, dove il flusso di migranti subisce restrizioni sempre maggiori e che si vorrebbe sigillare per 'proteggere le frontiere esterne dell'Europa'. Non posso - per il mio passato alle Nazioni Unite, per i sentimenti di umanità che dovrebbero guidare chi ricopre cariche istituzionali - non chiedermi: da chi dovremmo proteggere le frontiere? Dai bambini, dalle donne, dagli uomini cui siamo obbligati, in base ai Trattati che abbiamo sottoscritto, a garantire protezione? Sarebbe questa la soluzione del problema, anziché affrontare alla radice la guerra in Siria, il caos in Somalia, la dittatura in Eritrea?
Se cade Schengen, cade l'Europa. Lo si è ripetuto in tempi di crisi della moneta comune: se cade l'euro, cade l'Europa. E' ancora più vero se riferito alla libera circolazione delle persone, il cuore del progetto europeo. Beninteso, è evidente che dobbiamo rafforzare i controlli alle frontiere, ma dobbiamo farlo agendo insieme nel rispetto dei diritti umani, ad esempio attraverso una Guardia costiera europea, non inviando forze di polizia con il mandato di sigillare i confini.
Non è infatti l'arrivo dei rifugiati a mettere in pericolo la nostra identità; è la chiusura delle frontiere, il rifiuto dell'accoglienza, che renderà vuoti i principi che costituiscono la base della nostra convivenza. Non è la diversità che distruggerà la nostra società, bensì la paura.
Chi invoca queste misure dà ragione alle grida dei populisti che vorrebbero distruggere quanto è stato costruito negli ultimi decenni per tornare, in maniera anacronistica e velleitaria, alle 'piccole patrie'. Tra di essi, tra chi invoca fili spinati e muri, vi sono i leader di alcuni Stati membri che forse vorrebbero disgregare il progetto europeo. Non si comprende, allora, perché abbiano voluto con tanta forza entrare a far parte di questa famiglia.
I populisti offrono risposte facili ed illusorie alle domande ed alle richieste dei cittadini, domande e richieste che non possiamo però ignorare e cui dobbiamo saper dare seguito in maniera concreta. I cittadini europei ci chiedono a gran voce di saper gestire il flusso di migranti; di voltare pagina rispetto alle politiche economiche che hanno contribuito a causare l'impoverimento di ampi strati del ceto medio. Reclamano una prospettiva di futuro per i loro figli. Io stessa mi auguro di non dovere, un giorno, raccontare ai miei nipoti - se mai ne avrò - che "c'era una volta l'Europa", un continente dove si poteva circolare, lavorare e studiare liberamente. Un progetto che, per loro, non esisterà più.
Il mio passato professionale m'impone ora di ricordare alcuni dati. Le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo sono oggi sessanta milioni, l'equivalente della popolazione italiana, di cui meno del 2% ha raggiunto l'UE. In Libano, un quarto della popolazione di poco più di quattro milioni di abitanti è costituito da rifugiati. In Turchia, sono oltre 2,5 milioni. E noi rischiamo di compromettere il più grande progetto europeo dalla fine della Seconda Guerra mondiale perché lo scorso anno, in un continente di 500 milioni di abitanti divisi in ventotto Paesi, è arrivato un milione di rifugiati?
All'inizio della crisi dei rifugiati la Commissione europea ha proposto misure innovative e coraggiose. Con l'Agenda europea per le migrazioni ed il piano di cosiddetto ricollocamento, veniva meno, per la prima volta, il principio su cui si fonda l'attuale sistema d'asilo europeo: quello, cioè, in base al quale l'individuo che chiede asilo in Europa deve farlo nel primo Paese europeo in cui fa ingresso. Una parte degli Stati Membri, tuttavia, si è opposta al piano e ne boicotta apertamente - e impunemente - l'attuazione. I Paesi inadempienti non sono la Grecia e l'Italia, ree di non aver istituito con la dovuta celerità i centri d'identificazione, i cosiddetti 'hotspots', ma gli Stati che si rifiutano di accogliere i richiedenti asilo da ricollocare. E' bene ricordarlo, prospettando anche misure sanzionatorie, come la decurtazione dei fondi europei.
Questa Europa, incapace di rispondere alle grandi sfide globali, è come una macchina vecchia, una macchina bella e gloriosa il cui motore però procede ormai a singhiozzo. Una macchina che ci ha portato molti benefici che oggi diamo per scontati: la libertà di movimento, una valuta comune, la possibilità di lavorare in tutti gli Stati membri, i fondi strutturali europei, utilizzati per vivere in città più pulite, per ristrutturare i borghi, per promuovere un'agricoltura di qualità. Questa macchina, questo motore vanno dunque sostituiti con un'automobile più competitiva, un modello nuovo, sostenibile, in grado di portarci lontano e suscitare la passione delle nuove generazioni.
Per costruire questo modello nuovo ognuno di noi è chiamato, oggi, a fare la propria parte.
L'estate scorsa, quando le cronache già ci raccontavano la morte quasi quotidiana di uomini, donne e bambini annegati alla ricerca di una vita migliore in Europa, quando i giornali erano pieni di analisi sulle misure d'austerità imposte alla Grecia per poter accedere ai fondi necessari per l'ennesimo salvataggio, decisi che non potevo rimanere inerte.
Cominciai chiamando il Presidente del Parlamento lussemburghese. Gli chiesi se potevo coinvolgerlo, in quanto rappresentante del Paese che deteneva la Presidenza del Consiglio dell'UE, nella firma di una Dichiarazione. Accettò con entusiasmo, come fece anche il Presidente Bartolone dell'Assemblea nazionale francese. Con meno speranze di ricevere una risposta positiva, contattai il Presidente del Bundestag, Lammert. La sua reazione fu, invece, entusiasta. A New York, alla Conferenza mondiale dei Presidenti di Parlamento, mettemmo a punto il testo. Un risultato non scontato, date le differenze di vedute tra i nostri rispettivi Paesi e le diverse famiglie politiche di appartenenza.
Meno di due mesi dopo, il 14 settembre scorso, ci riunimmo a Roma, alla Camera dei deputati, davanti a tanti ragazzi dell'ERASMUS, per sottoscrivere una Dichiarazione che dice in modo molto chiaro che, per affrontare le sfide globali - cambiamento climatico, flussi migratori, gestione del web, lotta al terrorismo - :
1) abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa;
2) dobbiamo avere il coraggio di condividere sovranità in ampi settori in cui l'azione dei singoli Stati è ormai del tutto inadeguata a fronteggiare le sfide globali;
3) dobbiamo puntare prioritariamente al rilancio della crescita e dell'occupazione;
4) non possiamo più ignorare la dimensione e l'impatto sociale delle misure economiche e finanziarie;
5) dobbiamo avere come obiettivo la creazione di una Federazione di Stati, nella prospettiva, aggiungo io, degli Stati Uniti d'Europa.
All'inizio di dicembre sono stata a Bruxelles ed ho presentato la dichiarazione, anche a nome degli altri firmatari, ai Presidenti Martin Schulz e Jean-Claude Juncker, i quali hanno accolto con grande interesse e favore questa iniziativa.
Siamo partiti in quattro. Oggi ho il piacere di annunciarvi che le firme di Presidenti di Assemblee legislative dell'UE sono undici.
Ho voluto però coinvolgere in questo processo anche i cittadini, per chiedere loro direttamente quale Europa vogliono. Per questa ragione ho avviato lo scorso 12 febbraio sul sito della Camera dei deputati una consultazione pubblica sullo stato e le prospettive dell'Unione che sta registrando un significativo numero di partecipanti. Credo fermamente che la rappresentanza democratica non si indebolisca dando la parola ai cittadini, ma anzi, che così facendo si rafforzi. Vi invito dunque tutti, cari professori e cari studenti, a dire la vostra partecipando alla consultazione che resterà aperta sino a metà maggio.
Illustrerò i primi risultati della consultazione nel corso della prossima Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti a Lussemburgo, che si svolgerà a fine maggio e nel corso della quale contiamo di raccogliere altre adesioni alla Dichiarazione, che figurerà tra i temi ufficiali in discussione. Successivamente un comitato di saggi, composto da economisti, statistici, politologi e giuristi esperti di Unione europea, procederà ad un'analisi approfondita degli esiti della consultazione e predisporrà una relazione entro giugno o luglio 2016.
La relazione costituirà la base per la elaborazione di un nuovo Progetto federalista (che ho voluto chiamare Progetto EUtopia), che sarà presentato a fine agosto 2016 a Ventotene, nel corso di un evento organizzato da associazioni di giovani federalisti ed al quale prenderò parte personalmente.
Come potrete comprendere da quanto vi ho detto, intendo seguire una precisa roadmap europeista che miri a risultati concreti e che ci conduca verso gli Stati Uniti d'Europa.
Insomma, ragazzi, non bisogna farsi scoraggiare! Fin dalle sue origini questo progetto ha sfidato l'impossibile. E' nato sotto le bombe, nel 1941, mentre gli europei si dilaniavano nella guerra. Eppure è andato avanti, si è concretizzato, grazie alla tenacia di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi, di Eugenio Colorni, di Ursula Hirschmann.
Spinelli ebbe a sottolineare che la grandezza degli ideali politici si manifesta nella capacità di aprire cammini nuovi. Il percorso europeo ed europeista è sempre stato caratterizzato da una serie di stop and go. Quindi per percorrere il nostro cammino dobbiamo dare risposte chiare ed effettivamente praticabili ad alcune domande sul futuro assetto dell'Unione federale.
La prima è: chi dovrà far parte della Federazione europea?
Sarei felice se tutti i 28 Stati membri procedessero insieme verso l'integrazione politica, ma non ignoro le difficoltà e soprattutto temo l'immobilismo. Non va dunque esclusa una Europa a due velocità o a circonferenze concentriche, in cui si proceda ad una integrazione più stretta tra un gruppo di Stati, lasciando agli altri la possibilità di aderire in un secondo momento. In questa prospettiva, l'eurozona potrebbe costituire l'avanguardia per una integrazione politica, purché si doti di politiche e figure istituzionali - veri e propri ministri - volte primariamente al perseguimento della crescita, dell'occupazione e dell'inclusione sociale, e non soltanto al controllo sulle finanze pubbliche ed all'attuazione di riforme strutturali.
La seconda è: di quali politiche e di quali mezzi dovrà disporre la Federazione europea?
Ritengo che la Federazione dovrà essere dotata di ampie competenze esclusive, a partire da tutti i settori in cui l'azione dei singoli Stati risulta inadeguata ad affrontare le grandi sfide globali. Ma non possono esistere politiche federali senza i mezzi per attuarle, senza un bilancio federale adeguato, finanziato da autentiche risorse proprie e capace di sostenere l'emissione di titoli per promuovere grandi progetti di interesse europeo. Chi, giustamente, lamenta l'inadeguatezza della risposta europea alla crisi, paragonandola a quella di altri partner globali, dovrebbe ricordare che attualmente l'UE ha un bilancio pari a meno dell'1% del PIL europeo, mentre il bilancio federale americano è pari al 25% del PIL complessivo degli USA!
La terza domanda è: come assicurare che le istituzioni federali, che queste nuove figure istituzionali, abbiano legittimazione democratica?
Questo obiettivo si consegue superando il metodo intergovernativo ed attribuendo piene competenze legislative, di indirizzo e controllo ad un Parlamento europeo - a 28 o dell'eurozona - eletto sulla base di liste transnazionali, identiche per ciascun partito europeo in tutti gli Stati membri. Solo in questo modo supereremo l'idea per cui anche in seno al Parlamento europeo il criterio della nazionalità prevale su quello dell'orientamento politico. Solo in questo modo avremo veri partiti politici europei in grado di animare il dibattito politico intorno a priorità europee e non a questioni di mera rilevanza interna. Le elezioni europee devono cessare di essere banchi di prova per i Governi nazionali ed i rappresentanti che siedono nel Parlamento europeo devono tutelare gli interessi dell'UE, non quelli nazionali. Perché gli interessi nazionali coincidono - devono coincidere - con quelli europei! E solo un'Europa politica, pienamente legittimata, può essere quell'Europa sociale che riduca finalmente le diseguaglianze. Non può essere la tecnocrazia a farlo; queste scelte sono proprie della politica.
La quarta domanda, strettamente connessa alla precedente è: può esistere una Unione politica e legittimata democraticamente senza un "demos" europeo, un popolo che si senta partecipe di un destino comune?
La risposta è: no! Occorre una comunità fondata sulla condivisione di valori e principi, e quindi su una cittadinanza comune che attribuisca, effettivamente, eguali diritti e doveri.
In questa prospettiva bisogna riconoscere che l'istituto della cittadinanza europea previsto dai Trattati vigenti è chiaramente inadeguato perché si tratta di un mero accessorio della cittadinanza nazionale, da cui è derivata. Occorre dunque costruire una nuova cittadinanza europea, che consenta a tutti di apprezzare concretamente il valore aggiunto della costruzione europea, mutandone radicalmente la percezione attuale, che è quella di un entità lontana e insensibile alle condizioni di vita delle persone.
Penso ad esempio ad un reddito minimo di cittadinanza europea, che il bilancio europeo o dell'eurozona erogherebbe a tutti i cittadini che vivono una condizione di indigenza. Con una misura di questo tipo si riaffermerebbe il principio che l'Europa, patria dei diritti umani, non abbandona nessuno al proprio destino.
Inoltre, bisognerebbe armonizzare le condizioni per l'acquisizione della cittadinanza nei vari Stati membri, anche da parte di persone non comunitarie.
Signore e Signore, per poter garantire ai nostri figli un futuro prospero, un futuro di pace e stabilità, non abbiamo alternative: dobbiamo batterci con forza per un'Europa più unita e più forte. Il tempo stringe. Bisogna agire e ognuno - come ho cercato di dimostrare - deve fare la sua parte: i Governi, i Parlamenti, i cittadini.
Il Manifesto di Ventotene si chiude con una frase che consegno a tutti voi: "La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà".