09/12/2013
Roma, Università degli Studi 'Roma Tre'

Inaugurazione dell'Anno Accademico 2013-2014

Buon giorno a tutte e a tutti. Ringrazio il Rettore, professor Mario Panizza, per l'invito che mi ha rivolto a partecipare all'inaugurazione dell'anno accademico dell' Università Roma Tre. Saluto tutti i presenti: i docenti, gli studenti e il personale amministrativo. Devo dirvi che ho molto apprezzato la relazione del Rettore e gli interventi sia del rappresentante degli studenti che di quella del personale tecnico amministrativo e bibliotecario. Nell'intervento di questa ultima c'è stata molta passione. Roma Tre è un'università giovane - ha da poco superato i vent'anni - ma rappresenta già una realtà molto importante nell'offerta formativa di Roma e dell'intero paese.

La sua nascita coincide con la riqualificazione di un' area della Capitale che era un tempo spartiacque, periferia industriale di Roma. Ecco un esempio di come si possa governare in modo positivo la trasformazione del tessuto urbano di una grande città. Una volta tanto la speculazione ha ceduto il passo ad un intervento intelligente di riconversione di una realtà territoriale e anche di riuso degli spazi.

Questo esempio è importante perché la qualità della vita nelle città sarà sempre più uno degli elementi decisivi della competitività fra i sistemi paese. L'offerta educativa rappresenta uno degli ingredienti chiave per il successo di questa prospettiva. Le ragioni sono evidenti: fare da polo di attrazione per i giovani in fase di formazione significa immettere nel corpo vivo di una città una corrente di energia, di creatività e di speranza che può davvero fare la differenza per il futuro di una comunità.

E significa fare dell'Università un volano di sviluppo, per le ricadute economiche, oltre che sociali e culturali, che può determinare nel territorio che la circonda.

Roma Tre sta facendo la sua parte in questa difficile impresa, continuando ad attrarre migliaia di studenti, promuovendo ricerca avanzata e cercando nuove opportunità di collegamento con il mondo del lavoro. Grazie a questi stimoli si è creata attorno all'università una fitta trama di comunità giovanili, di iniziative culturali e artistiche, di imprese operanti in settori avanzati che sono risorse preziose per questa città.

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Sono stata invitata a svolgere il mio intervento sul tema della funzione sociale dell'università fra sviluppo, innovazione e coesione. E' un triangolo difficile da tenere insieme nelle società contemporanee, soprattutto perché perdura un certo modo di intendere lo sviluppo economico in termini puramente quantitativi e monetari, senza valutare l'incremento della ricerca e della conoscenza, presupposti dell'innovazione, né l'equità sociale, presupposto della coesione.

L'università ha un ruolo cruciale da svolgere per riequilibrare questo triangolo. Ma occorre restituirle il senso di una missione generale che abbia valore per tutta la società.

Pensiamo ad esempio a che cosa ha rappresentato l'Università nell'immediato dopoguerra e agli albori del boom economico.

In quegli anni il sogno di un figlio all'Università rappresentava per tanti genitori un'aspirazione per la quale valeva la pena spendere una vita di sacrifici. Perché i genitori dei nostri genitori facevano volentieri questi sacrifici? Per una questione di status e di riconoscimento sociale ? Anche.
Perché no ?

Ma lo facevano soprattutto perché lo studio e il sapere rappresentavano l'impalcatura della mobilità sociale. Perché un titolo di studio superiore e ancor più universitario davano la certezza che i figli avrebbero avuto un lavoro e un reddito migliore di quello dei loro genitori e che grazie alla conoscenza la società sarebbe andata avanti e si sarebbe lasciata alle spalle una volta per tutte la povertà e l'arretratezza economica e culturale.

Talmente forte era questa convinzione e questa spinta che ci si pose l'obiettivo della scolarizzazione di massa - ragazzi, lo dico a voi: non era scontato - e lo si raggiunse. E anche le Università furono investite dalla stessa ondata : ad accedere all'istruzione di massimo livello furono anche i figli delle famiglie popolari e non più soltanto i ragazzi dei ceti medio alti. Ad accedere all'istruzione e al lavoro furono anche le donne, avviando un percorso di parità e di opportunità che, purtroppo, non è ancora concluso. In ogni caso si è trattato di una grande rivoluzione, che è stata poi alla base dei movimenti giovanili della fine degli anni sessanta.

La convinzione che il succedersi delle generazioni corrispondeva ad un inarrestabile miglioramento sociale è andata avanti nel tempo e ha sempre fatto leva sulla conoscenza, sul progresso scientifico e tecnologico.

Nonostante i ritardi accumulati rispetto alle economie di altri paesi industrializzati, negli anni sessanta l'Italia aveva fatto enormi progressi in almeno tre settori strategici: quello informatico, quello energetico e quello medico. Era l'Italia dell'industriale Adriano Olivetti, del presidente dell'Eni Enrico Mattei, del chimico Domenico Marotta. Persone con una visione di progresso e di sviluppo economico e sociale basato proprio sulla ricerca, una visione che ci stava portando all'avanguardia in diversi campi.

Quel progresso è stato interrotto, per diversi motivi, con diverse responsabilità, in buona parte politiche, interne ed esterne rispetto al nostro Paese.

Oggi l'Italia è in una chiara situazione di declino e questo è dovuto anche allo scarso investimento nel Sapere.

Non meraviglia che anche la mobilità sociale si sia fortemente ridotta. L'ascensore si è bloccato, si è rotto. E il nostro è uno degli Stati dell'Unione Europea che presenta uno dei tassi più elevati di diseguaglianza sociale. E la diseguaglianza, ripete spesso l'economista Joseph Stiglitz, uccide la crescita. Non è solo ingiusta per chi ne soffre ma è nociva per l'intera società. In Italia come altrove, c'è una correlazione evidente, quindi, tra crescita delle diseguaglianze e blocco della mobilità. È ormai noto che per la prima volta dal dopoguerra i nostri figli sembrano destinati a vivere in condizioni peggiori rispetto ai noi genitori.


Ma come è avvenuto tutto questo? Non certo per un accidente del

destino.

Si è trattato al contrario di scelte politiche e dell'affermazione di una certa idea dello sviluppo.

L'idea, in realtà non nuova, che per far crescere l'economia basti lasciar fare al mercato e alla finanza. Che la mano pubblica non deve intromettersi, che non servono politiche industriali capaci di coniugare quei tre elementi di cui parliamo oggi: sviluppo, innovazione, coesione.

Questa idea è andata avanti sostenuta da una cultura, anzi da una sottocultura, dell'arricchimento facile. Non è importante produrre, basta accumulare denaro. Non serve innovare l'industria, basta delocalizzare in paesi con scarse tutele, con poche regole. E, per arrivare a noi, a che serve studiare, a che servono le università quando il Sapere non è più funzionale alla ricchezza?

Ecco allora che appena i bilanci dello Stato hanno cominciato ad andare in rosso, non si è esitato a tagliare sulla scuola, sulla ricerca e sull'Università. Qualcuno arrivò perfino a dire che "con la cultura non si mangia". Parole sciagurate e qualunquiste!

I tagli alla cultura e all'istruzione soprattutto negli ultimi cinque anni hanno contribuito a fare una cosa molto grave, quasi imperdonabile, a minacciare il Sapere. Forse si preferisce davvero una società che non sa e che non pensa. In fondo nella casa del "Grande fratello" non ci sono mica i libri! Perché investire nella cultura, se quello è l'obiettivo, se è lì davanti che si fanno le file?

Si è trattato, come ho detto, di scelte politiche, non di mere manovre contabili. Che si debba ridurre il debito, può essere una necessità oggettiva. Va fatto. Dove fare i tagli, no. E' chiara la differenza? È una decisione politica, tanto più sbagliata perché in tempi di crisi spendere per scuola e Università è un investimento, un fattore di ripresa, non un costo, come possiamo vedere in Paesi più illuminati del nostro che investono su queste voci perché sanno che da lì passa la ripresa.

L'Italia è ancora lontana dagli obiettivi fissati dall'Unione Europea nell'ambito dell'agenda 2020, che prevedono di raggiungere il 40 per cento di laureati nella popolazione fra i 30 e i 34 anni. Siamo a poco più della metà di questa soglia.

E poi colpisce che fra i tanti sprechi che si consumano nel nostro paese, ci sia quello forse più insopportabile : due milioni di giovani fra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti né a scuola né all'università, che non lavorano, né seguono alcun programma di aggiornamento o di formazione professionale. I cosiddetti "NEET" ( Not in education, employment or training). Una generazione persa.

Un vero paradosso per l'Italia, uno dei paesi con un tasso di natalità fra i più bassi del mondo, che dovrebbe avere letteralmente "fame" di giovani da impegnare.

Come se non bastasse, gli interventi legislativi che hanno finora cercato di incentivare l'occupazione giovanile hanno dato risultati a dir poco deludenti. Con il pretesto della flessibilità si sono aggravati i fenomeni di precarizzazione e sono prevalse logiche di lavoro "usa e getta".

Giorni fa ho incontrato nelle Marche un gruppo di ricercatori del CNR, esperti della pesca e dell'ambiente marino, avranno avuto la mia età. Studiosi riconosciuti a livello internazionale, eppure perennemente precari. Alcuni da oltre vent'anni. Destinati a rimanerlo a vita.

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Bisogna assolutamente ribaltare questa situazione, lavorando a un modello di sviluppo che sia sostenibile ecologicamente e socialmente e che faccia perno sulla diffusione della conoscenza. Il sapere deve tornare ad essere motore del progresso sociale come fu negli anni che ho ricordato poco fa.

Ma allora bisogna dare forza alle istituzioni della conoscenza. Le nostre scuole, le nostre università non potranno adempiere alla loro missione senza una visione e un adeguato sostegno finanziario. Solo in questa ottica, l'Italia può tornare a credere nei suoi giovani e nel suo futuro. Al Nord come al Sud perché l'Italia non può fare a meno del Sud. Se dovremo, spero presto, alzare la testa, ci dovrà essere anche il Sud, nessuna parte del Paese può essere lasciata indietro.

L'esperienza dei paesi più avanzati dimostra che oggi più che mai l'innovazione non è possibile senza confronto e contaminazione tra diversi contesti culturali e scientifici.

Pensiamo alla "fuga dei cervelli", purtroppo una realtà del nostro paese. Che i nostri studenti facciano esperienze all'estero è sempre positivo, per la loro crescita personale e professionale. Bisogna però attivare quella circolazione dei talenti che può funzionare pienamente solo mettendo in rete su scala globale le Università e i centri di ricerca.

In poche parole : io sono contenta di sapere che ci sono ragazzi italiani che studiano negli Stati Uniti o in Germania, che si specializzano in ingegneria così come in filosofia. Ma sarei anche contenta di vederli tornare in Italia con una prospettiva concreta di lavoro. Così come sarei contenta di vedere molti più studenti e ricercatori americani, europei e -perché no ?- cinesi e indiani tra i banchi dei nostri atenei. Allora toccheremo con mano cosa significhi far parte di una rete globale della conoscenza, quando ci sarà questa circolarità.

Ma anche in questo caso il globale deve interagire con il locale. C'è bisogno di una triangolazione efficace tra università, imprese e istituzioni, locali e nazionali.

Le istituzioni debbono sostenere le imprese che investono in innovazione e nuova occupazione, insieme alle università che formano capacità e competenze.

In questo contesto, come ha iniziato a fare Roma Tre, le università hanno il compito di studiare il territorio dove sono collocate, i bisogni delle persone, le risorse del contesto economico e produttivo per adeguare a questa realtà l'offerta formativa.

L'istruzione universitaria ha una correlazione speciale con lo sviluppo anche perché la ricchezza delle nazioni va ormai considerata in termini diversi rispetto a quelli solamente economici. Non si può oggi parlare davvero di sviluppo se non si prende in considerazione un insieme di indicatori sullo stato generale di benessere della popolazione, fra i quali il grado e la qualità dell'istruzione hanno un posto di assoluta preminenza.

E allora, vorrei dire a voi studenti, che studiare non serve solo a voi stessi ma il vostro studio serve al Paese, che il livello di istruzione e di conoscenza è un bagaglio indispensabile per affrontare il viaggio in un mondo, come quello di oggi, che certamente offre meno garanzie, ma non è privo di opportunità. Quindi state facendo qualcosa di importante, siatene consapevoli, non state perdendo tempo! Voi rendete un servizio al nostro Paese, che ha bisogno di Sapere!

E un'altra cosa vorrei dirvi. Non possiamo piangerci addosso. La crisi va risolta cambiando le cose tutti insieme, non c'è una delega in bianco. La crisi va sfidata ogni giorno anche da ciascuno di noi.

Ho incontrato recentemente in Puglia dei giovani che hanno partecipato al programma regionale "Bollenti spiriti" grazie al quale hanno potuto dare vita a delle imprese, start up innovative, basate su ingredienti essenziali quali la creatività e la ricerca di nuove realtà di mercato. Altri giovani in Sicilia e nelle Marche che, dopo un percorso di specializzazione all'estero, sono rientrati e, grazie al sostegno della Regione, hanno iniziato un percorso imprenditoriale.

Quei giovani potevano scegliere di arrendersi o di piegarsi alla logica della raccomandazione, delle "entrature" per trovare lavoro. E invece no. Hanno scelto di scommettere sui loro talenti e sulla loro cultura innovativa. Oggi vedono premiato il loro coraggio.

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Ma l'innovazione, vorrei dirvi in conclusione, non si fa solo nel chiuso dei laboratori e non riguarda solo la sfera della tecnologia. Importante, lasciatemelo dire, è anche l'innovazione in campo politico e sociale. E qui i protagonisti dovete essere soprattutto voi, cari studenti. L'innovazione reale nasce dalla dialettica, dal senso critico, dalla partecipazione, dal confronto fra gli equilibri di potere consolidati e le speranze di chi vede le cose che non vanno e vuole contribuire al cambiamento.

L'università deve essere anche uno spazio aperto alle vostre sfide e alle vostre domande, anche le più radicali.

Non è facile cambiare questo mondo "grande e terribile" che segue le proprie logiche e ha le sue spietate durezze. Per questo c'è bisogno di grande ostinazione, di competenza ma anche di passione, di speranza, di generosità.

Ostinazione, speranza, generosità. Queste parole mi fanno pensare a un uomo che poteva arrendersi e non lo ha fatto, che poteva scegliere la vendetta e ha invece scelto la riconciliazione e l'unità del suo popolo. Nelson Mandela, sarà per sempre fonte di ispirazione per tutti quelli che si battono in nome della libertà e dei diritti umani.

Ragazze e ragazzi, gli anni dell'università rappresentano un momento unico dell'esistenza, in cui si concentrano tutte le energie e si fanno gli incontri decisivi per la vita. Lo è stato per me, che ho studiato qui a Roma, da fuorisede, provenendo da un piccolo centro delle Marche. Il mio lavoro mi ha poi portato lontano, nelle aree più difficili del mondo, a contatto con situazioni umane e sociali di cui non avrei mai immaginato neanche l'esistenza.

In questi anni così preziosi non smettete mai di esercitare la vostra curiosità, la vostra capacità di meravigliarvi e di indignarvi.

Avete la possibilità qui e ora di cambiare la vostra vita e anche un pezzo di mondo. Fatelo, non rinunciate!