14/02/2014
Roma, Scuola Superiore di Polizia

Inaugurazione dell'Anno Accademico 2014 della Scuola Superiore di Polizia

Buongiorno a tutti voi. Mi hanno chiesto di tenere una prolusione, e dunque non sarò breve: anche se, a mio avviso, la comunicazione più efficace è quella sintetica ed incisiva. Non potrò essere breve, ma spero almeno di essere efficace. Un saluto al Capo della Polizia, Prefetto Alessandro Pansa, al Direttore della Scuola Superiore di Polizia, dott. Roberto Sgalla, e a tutti gli iscritti all'anno accademico 2014.

Ringrazio la Scuola - a cui rivolgo i complimenti per quello che fa: ho visto iniziative di grande rilievo - per avermi invitato ad intervenire alla cerimonia di inaugurazione dell'anno accademico e per avermi chiesto di parlare di due temi, quello dell'immigrazione e quello della violenza di genere, che mi stanno particolarmente a cuore e che considero di primaria importanza per il futuro della nostra società.

Su entrambi i temi, come vedrete, farò riferimento all'approccio culturale con il quale argomenti così rilevanti meritano di essere affrontati.

Questa esigenza risulta particolarmente evidente sul tema dell'immigrazione.

Le dimensioni di questo fenomeno in Italia, rispetto a quanto avvenuto e avviene in altri Paesi europei, non sono in realtà tali da giustificare atteggiamenti allarmistici. Dobbiamo "allargare la lente", per capire siamo gli unici ad occuparcene.

Nel 2012 le domande di asilo sono state in Italia 15.700, contro le 64.500 della Germania, le 54.900 della Francia, le 43.000 della piccola Svezia. I rifugiati, in quello stesso anno, risultavano 64.800 in Italia, 589.700 in Germania, 217.900 in Francia, 92.800 in Svezia.

Ma dobbiamo anche prendere atto che c'è stato e continua ad esserci purtroppo chi ha deciso, magari per cercare un facile consenso, di soffiare sul fuoco e di presentare gli stranieri che arrivano in Italia come una minaccia alla sicurezza collettiva e perfino ai livelli di benessere sociale degli italiani. "Vengono a toglierci il lavoro !" Quante volte abbiamo sentito questa frase. Ma io penso che sia veramente una sciocchezza, perché la realtà non è questa.

Io non nego affatto, voglio essere chiara su questo punto - perché poi è facile parlare di "buonismo" - che come tutti i grandi eventi epocali anche i flussi migratori portino con sé problemi e rischi da fronteggiare. Ma proprio perché si tratta di fenomeni complessi, chi rappresenta le istituzioni e la politica, chi è chiamato a prendere decisioni, non deve giocare con le paure delle persone, ma deve al contrario mostrare il massimo di lucidità e di approccio razionale.

Non si può non vedere allora, che anche i fenomeni migratori, che sono una costante nella storia dell'umanità, rappresentano oggi uno dei frutti di quella globalizzazione che sta cambiando le nostre vite.

Come si poteva pensare che alla libera circolazione dei beni, delle merci, dei capitali, delle informazioni, a cui stiamo assistendo su scala planetaria, non avrebbe corrisposto anche una spinta degli esseri umani a cercare altrove migliori condizioni di vita o a fuggire da situazioni di guerra e di privazione della libertà ? Tutto si muove. Come possiamo pensare che gli esseri umani siano avulsi da questa accelerazione?

Di questo stiamo parlando, di una logica conseguenza della globalizzazione che porta con sé problemi, certamente, ma anche - non lo dimentichiamo - tantissime opportunità.

I migranti, in altre parole, rappresentano l'elemento umano della globalizzazione, l'avanguardia del nostro futuro modo di vivere. Loro sono contemporanei, non noi. Intendo dire che loro oggi rappresentano al meglio la nostra contemporaneità e l'espressione di un presente globale : sempre più spesso si nasce in un paese, si cresce in un altro e poi si lavorerà in un altro ancora. Io non sono contemporanea: sono nata qui e lavoro qui. Mia figlia lo è più di me: è nata qui, studia all'estero e temo che non la rivedrò. Loro sono più coraggiosi di noi, prendono il rischio.

Ecco allora che pretendere di arginare questo fenomeno erigendo steccati e divieti, in virtù di un approccio che ne vede solo le minacce e i pericoli, è una strada senza uscita. E troppo spesso anche la legislazione su questa materia è risultata condizionata da quel tipo di approccio.

Il risultato del recente referendum in Svizzera ci dice peraltro che anche sui temi dell'immigrazione si definirà l'identità dell'Europa del futuro: se sarà un territorio disseminato di steccati e chiuso in se stesso o se sarà uno spazio aperto, ispirato ai valori dei diritti umani, del confronto, del libero scambio economico e tra le diverse culture che animano il mondo contemporaneo.

Peraltro, la vicenda del referendum svizzero, ed i suoi effetti, allo stato non ancora prevedibili nella loro complessità, ci insegnano come stereotipi e preconcetti che spesso noi utilizziamo verso gli altri, possono poi magari essere utilizzati nei confronti di molti nostri cittadini che lavorano all'estero.

Il fenomeno migratorio va dunque governato come elemento strutturale e non emergenziale. Per 10-12 anni, ogni estate abbiamo sentito che si parlava di emergenza-sbarchi. Ma può mai essere un'emergenza, se si ripete ogni anno?Ma affinché sia governato bene va innanzitutto conosciuto. Mi riferisco al fatto che troppo raramente ci si pone quella che io considero la domanda fondamentale : perché così tante persone sono disposte a lasciare il loro Paese e i loro affetti e ad affrontare viaggi, peraltro assai costosi e spesso a rischio della loro stessa vita ? Sono forse esseri umani diversi da noi, con altri valori?

Per capire fino in fondo quanto sta accedendo dobbiamo allora cambiare ottica, rispetto a quella consueta, e guardare questo fenomeno con gli occhi dei diretti interessati, cioè con gli occhi dei migranti e dei rifugiati. Mattiamoci nei panni di un padre di famiglia che decide di fare quella scelta.

E quel loro sguardo ci farà vedere quante ingiustizie ci sono ancora nel mondo, quanto poco la ricchezza venga distribuita, in quanti Paesi manca la libertà, quanti conflitti, molti dei quali dimenticati, ancora seminano morte, distruzione ed esodi di massa. Anche se i nostri quotidiani non ne parlano, la situazione è pesante in molte parti del pianeta. In questi Paesi manca la sicurezza: la sicurezza non è una prerogativa o un'aspirazione solo nostra.

E quello sguardo ci aiuta a distinguere il rifugiato dal migrante per ragioni economiche, chi fugge per migliorare la propria esistenza da chi nel suo paese è perseguitato e rischia addirittura la vita. L'eccesso di semplificazione alimenta il pregiudizio. La comprensione delle differenze aiuta invece a fare scelte razionali ed efficaci.

Questo ho imparato durante il mio impegno presso le Agenzie delle Nazioni Unite e in particolare nei quindici anni con l'UNHCR, l'agenzia dell'Onu per i rifugiati.

Quello di cui stiamo parlando è un fenomeno in continua evoluzione e dunque anche la legislazione deve evolversi, se vogliamo essere all'altezza della sfida.

Fino a pochi anni fa coloro che con mezzi di fortuna cercavano di raggiungere le nostre coste erano mossi prevalentemente dalla ricerca di migliori condizioni economiche per sé e per le proprie famiglie. Oggi non è più così. L'ottanta per cento circa di coloro che arrivano in Italia via mare sono richiedenti asilo, fuggono dalle dittature, dalle guerre e dalle persecuzioni.

Dunque, il Mediterraneo può essere considerato la via dell'asilo.

Mi sono trovata in moltissime occasioni nei luoghi di sbarco: a Lampedusa, ma anche nell'agrigentino e nel siracusano, oppure in Calabria ed in Puglia. E ho potuto vedere gli uomini e le donne delle forze di polizia impegnati nelle procedure di identificazione, che sono spesso molto lunghe e faticose.

Per chi arriva dal mare il momento dell'identificazione è a tutti gli effetti il primo impatto con le autorità italiane. E l'impatto è stato spesso problematico, perché una identificazione errata, causata da problemi linguistici o da una trascrizione inesatta dei dati, può avere conseguenze molto negative e perfino drammatiche sulle procedure successive. Ho tuttavia potuto verificare che nel corso degli anni anche in questo settore è cresciuta la professionalità delle forze dell'ordine. Dagli anni '90 ad oggi non c'è paragone, anche in termini di mezzi.

Ma oltre che sulle nostre coste con imbarcazioni di fortuna, i richiedenti asilo, seppure in misura minore, raggiungono l'Italia anche in aereo, e nei nostri aeroporti chi richiede protezione deve ricevere la necessaria assistenza e non può essere rinviato nel Paese di origine. Oppure attraversano i confini terrestri, spesso insieme ai migranti irregolari. Per questo è una sfida non facile, perché si tratta di gestire un flusso misto. O arrivano nascosti nei camion che viaggiano sui traghetti dalla Grecia, quasi sempre in condizioni difficilissime ed a rischio della vita, come purtroppo documentano i tanti drammatici casi di morti per soffocamento. Io stessa ho potuto assistere all'arrivo di questi giovani e sono andata ai funerali di diversi ragazzi.

Tra di essi, molti sono minori non accompagnati, di frequente afgani giovanissimi - di quindici, sedici, a volte anche dodici o tredici anni - in fuga dalle violenze che, da soli, compiono viaggi lunghi anni e pericolosi per raggiungere l'Europa.

E' in questo contesto così complesso e mutevole che alle forze di polizia vengono richiesti, nel campo dell'immigrazione e dell'asilo, compiti molto importanti che vanno ovviamente ben al di là delle procedure di identificazione.

Gli Uffici Immigrazione delle Questure hanno il compito di ricevere le prime domande e le istanze degli stranieri, nonché di produrre i documenti per le varie categorie di migranti.

Si tratta di un lavoro enorme che, forse, in futuro potrà essere svolto dai Comuni, come avviene in molti Paesi europei, permettendo così al personale e ai mezzi attualmente utilizzati per queste funzioni di essere impegnati in altri compiti, più strettamente connessi alla tutela della pubblica sicurezza.

Membri della Polizia di Stato sono anche componenti delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, che esaminano le domande d'asilo e decidono se concedere lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria, quella umanitaria o se respingere la domanda.

Come è ovvio, le forze dell'ordine hanno il dovere di prevenire i reati e di assicurare alla giustizia tutti i criminali, italiani e non italiani.

Ma nell'ultimo decennio, la retorica anti-immigrazione ed i venti del populismo e della xenofobia hanno inteso fondere, nell'immaginario collettivo, la figura del migrante con quella del criminale.

Questa tendenza ha avuto forti riflessi anche nei mezzi d'informazione e per questo l'Ordine dei Giornalisti, la Federazione nazionale della Stampa (con il suo Presidente di allora, Roberto Natale) e l'UNHCR hanno promosso un codice deontologico per i giornalisti sul tema dell'immigrazione e dell'asilo, la "Carta di Roma" per due cose: promuovere un linguaggio corretto e fornire tutele a richiedenti asilo e rifugiati che dall'esposizione mediatica possono ricevere danni per sé e per i propri familiari rimasti nei paesi d'origine. Quando dico linguaggio corretto mi riferisco in particolare ad una parola odiosa: quella di "clandestino" è una parola piena di pregiudizio, con cui vengono normalmente definiti sia i migranti che i rifugiati. Il clandestino fa paura, è qualcuno che si nasconde. Se è un migrante chiamiamolo così; se è un richiedente asilo chiamiamolo così.

La "Carta di Roma" nacque a seguito di due fatti di cronaca che certamente ricorderete.

Il primo è quello conosciuto come "la strage di Erba": furono brutalmente uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la nonna del bambino Paola Gallo e la vicina di casa Valeria Cherubini. Subito fu offerto all'opinione pubblica e sbattuto in prima pagina quello che agli occhi dei più non poteva che essere il colpevole, il tunisino Azouz Marzouk, padre del piccolo Youssef. Il pregiudizio condizionò così tanto i mezzi di informazione e l'opinione pubblica che ci si dimenticò perfino di verificare gli spostamenti del signor Marzouz che, mentre si consumava la strage, era in Tunisia.

Il secondo episodio fu una intervista fatta a un gruppo di richiedenti asilo eritrei che avevano raggiunto le coste italiane dopo un viaggio estenuante e drammatico. In un quotidiano nazionale furono pubblicate le loro foto e le loro generalità. Subito il regime eritreo si rivalse sui loro familiari rimasti a casa.

La "Carta di Roma" ha prodotto effetti positivi. Oggi, sui mezzi d'informazione, i temi dell'immigrazione vengono affrontati con maggiore attenzione e con più rispetto. Ma c'è ancora da vigilare continuando lo sforzo di formazione dei giornalisti.

Tutti dobbiamo fare più attenzione. Anche quando, nell'ambito delle procedure d'indagine vengono date alla stampa foto e generalità di persone che hanno fatto domanda di asilo.

Po c'è il fenomeno dell'ethnic profiling, ovvero della scelta degli individui da fermare o interrogare sulla base del colore della pelle o delle caratteristiche somatiche, è un tema di cui sempre più si discute a livello internazionale.

Anche l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa si è occupata recentemente di questo tema, approvando, quasi all'unanimità, un testo in cui si raccomanda alle forze di polizia dei quarantasette Stati membri, tra le altre cose, di dotarsi di un codice di condotta in materia e di fornire adeguata formazione al proprio personale.

Connesso al tema dell'immigrazione c'è l'odioso traffico di esseri umani: una vera e propria nuova schiavitù, non posso definirla altrimenti!

Ottocentomila persone ogni anno diventano vittime dell'inganno o delle violenze e poi dello sfruttamento, che è il fine ultimo di questo disumano commercio. In Italia, i dati stimati - con difetto - parlano di 20mila persone.

Se non tutte le vittime di tratta sono donne, è pur vero che, a livello mondiale, rappresentano circa l'ottanta per cento del totale. Ne ho incontrate tante, in questi anni. Minacciate di violenza, segregate, costrette a vendere i propri corpi per poter ripagare le migliaia di euro di debiti pretesi dai trafficanti, queste donne sole, terrorizzate ed in stragrande maggioranza irregolari hanno grandi difficoltà ad avvicinarsi a chi le potrebbe proteggere, alle associazioni ed alle autorità che potrebbero aiutarle.

Le forze di polizia, in questo contesto, possono fare molto per assistere queste donne, comprese quelle che vengono trattenute nei Centri d'identificazione e d'espulsione e che potrebbero, invece, beneficiare di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. L'Italia, infatti, ha una legislazione all'avanguardia in questo settore: le vittime di tratta hanno diritto alla protezione anche se non denunciano.

Non sono solo le donne straniere vittime di tratta a subire violenza nel nostro Paese, ovviamente. Lo sono molte - troppe - donne, italiane e non, che conducono vite apparentemente del tutto normali.

La Convenzione del Consiglio d'Europa "sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica", la c.d. Convenzione di Istanbul, ci dice che con l'espressione violenza nei confronti delle donne si intende "designare una violazione dei diritti umani - è la prima volta che la si definisce così - e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danno o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata".

Già la lettura di questa definizione ci porta a riflettere sulla complessità del fenomeno.

Alcuni dati, poi, ci fanno capire il livello drammatico cui si è giunti. Nel 2013 il numero totale degli omicidi in Italia cala rispetto al 2012 ma quelli a danno delle donne, moltissimi dei quali perpetrati da uomini nei loro confronti, aumenta: ci si attesta a 177 donne uccise. Una strage - di questo si tratta, come vogliamo chiamarla? - che va avanti inesorabile: il rapporto Eures dice ad esempio che tra il 2000 e il 2011 i femminicidi in Italia sono stati 2061, su un totale di 7440 omicidi. Impressionante.

Donne uccise in quanto donne, perché magari la loro autonomia è stata ritenuta insopportabile da mariti, compagni, fidanzati, ex-fidanzati.

Un'"emergenza", se con questa parola si intende un fenomeno gravissimo; ma non è un'emergenza se si intende qualcosa di inaspettato, di imprevedibile, perché gran parte di queste donne uccise aveva già fatto una denuncia: sette su dieci, dicono i dati. Come è potuto accadere che donne che avevano chiesto protezione, esponendosi con il gesto coraggioso della denuncia, siano poi state lasciate sole ? Che cosa non ha funzionato e non funziona nel meccanismo di tutela ?

Allo stesso modo, parlare di "raptus della gelosia", come ancora capita di sentire o di leggere, è un modo fuorviante di raccontare la realtà, perché il concetto nega il carattere drammaticamente strutturale e dunque culturale e familiare della violenza sulle donne.

Di questo parliamo, quando parliamo di femminicidio. Una parola nuova, per esprimere una nuova consapevolezza.

Ed ecco, partendo da queste preliminari considerazioni si comprende come questo fenomeno può essere affrontato compiutamente solo se si agisce su diversi piani. Il piano culturale innanzitutto, e poi quello normativo e repressivo, ma anche quello della formazione degli operatori e del sostegno alle vittime. Ma la vera soluzione la si troverà solo se questi diversi piani saranno affrontati nelle loro interazioni secondo un approccio sistematico ed integrato.

Nessuna nuova norma ha senso se non cammina insieme ad un profondo cambiamento del nostro modo di pensare, parlare, guardare. Nessuna disposizione sanzionatoria sarà realmente efficace se non accompagnata da una profonda azione sul piano della prevenzione nonché del supporto, anche finanziario, alle attività di sostegno, psicologico e materiale, delle vittime.

Parto, dunque, dal livello culturale perché è innegabile che il fenomeno ha radici profonde che si nutrono di antichi ma perduranti stereotipi nella rappresentazione delle donne. Il rispetto della donna è un fattore infatti che passa anche attraverso l'uso di un linguaggio consono e non sessista. Un linguaggio che restituisca il genere di appartenenza: la Ministra, la Commissaria, la Giudice, la Presidente. Non è un vezzo, ma è un modo per dire che quella delle donne in quei ruoli non è un'eccezione destinata a rientrare. Passa anche dal superamento di immagini che fanno della donna stessa mero oggetto estetico, decorativo, allusivo e ammiccante, mercificato e degradato. L'ho detto tante volte e non mi stancherò mai di ripeterlo. Molto c'è da fare poi perché i ruoli apicali per le donne non rappresentino più una eccezione. Voglio a questo proposito interpretare positivamente la percentuale, certo ancora minoritaria, di donne iscritte, alla prima e alla seconda annualità dei vostri corsi per Commissari (61 su 197).

Uso sessista della lingua, dicevo. Ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa. Qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l'uomo di norma non ribatte sullo stesso terreno, ma sposta il piano su quello dell'offesa sessuale. Non è solo una mia constatazione. È la Corte di cassazione che lo afferma, in una sentenza dello scorso anno, mettendo in grande risalto questo fenomeno.

E qui devo aprire una parentesi che riguarda il WEB. Un noto quotidiano qualche giorno fa titolava "Se Internet odia le donne". Ed erano veramente impressionanti i dati citati, molto dei quali, fra l'altro, provenienti proprio dalla polizia postale, che ringrazio per il lavoro che fa: il 90% delle aggressioni in rete ha come bersaglio le donne, di tutte le età.

Ovviamente tutto ciò non accade solo in Italia ma ad esempio studi comparativi dimostrano come mentre da noi capita spesso che lo stalking on line nasca prima nella vita reale, negli USA tutto nasce e resta all'interno della rete. Ma la vera differenza tra noi e realtà come quella statunitense o britannica sta soprattutto in una diversa consapevolezza dei rischi e in un conseguente disincanto, soprattutto da parte delle donne, verso il WEB. Disincanto che sempre più spesso - dicono le statistiche - diventa vero e proprio allontanamento dalla rete. Molte donne, negli Stati Uniti ad esempio, si cancellano da blog e social network. Insomma rinunciano alla propria libertà di espressione pur di non essere insultate e aggredite. E qui si apre lo spazio per un'altra riflessione che ho già avuto modo di sviluppare in altre occasioni: la rete costituisce il più grande "spazio pubblico" dei nostri tempi. Irrinunciabile strumento - al tempo stesso - di conoscenza, di informazione, di esercizio di diritti e di partecipazione politica, di lavoro, di transazioni commerciali e economiche.

Se ciò è vero, è altrettanto reale l'esigenza che questo spazio pubblico di libertà non diventi spazio di arbitrio, luogo in cui i diritti dei singoli, e in particolare delle donne, e il rispetto della dignità della persona possono essere violati impunemente, come invece ci dimostra ancora una volta l'ultimo tragico caso della ragazzina di Padova.

Le istituzioni hanno il dovere di intervenire. Non è una invasione di campo. E' una assunzione di responsabilità, anche se fa più comodo fingere di non vedere. E ad essa non ci si può sottrarre.

E' evidente quindi che sulle questioni di genere ci potrà essere un reale cambiamento solo se si saprà agire sul versante educativo, all'interno del nucleo familiare, nella scuola e nelle università, sul versante della corretta informazione e comunicazione, anche pubblicitaria, magari rifacendosi a questo proposito alle migliori prassi vigenti in Europa.

Si giunge così al secondo piano di intervento: quello normativo e sanzionatorio.

Come Presidente della Camera devo dire che in questa legislatura si è assistito, su questo versante, ad una reale presa di coscienza del fenomeno e le prime risposte sul piano normativo non si sono fatte attendere.

Mi riferisco alla già citata ratifica della Convenzione di Istanbul, per la quale bisogna ora costruire un quadro giuridico che dia concreto seguito alle previsioni della Convenzione stessa, e mi riferisco al decreto-legge "sul femminicidio", che ha introdotto modifiche al codice penale e misure a tutela delle vittime. Nel testo di quel decreto le Camere hanno inserito la previsione di un Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere.

Il Piano sarà elaborato dal Governo con il contributo di tutte le amministrazioni interessate, statali, regionali e locali, delle associazioni di donne impegnate nella lotta contro la violenza e dei centri antiviolenza e avrà come obiettivo quello di garantire azioni omogenee nel territorio nazionale attraverso il concorso di tutti i soggetti competenti.

E' una metodologia di intervento che richiama quella del cosiddetto "metodo Scotland", inaugurato in Inghilterra nel 2004 dall'allora Ministro del Governo britannico Patricia Scotland, che abbiamo invitato pochi mesi fa alla Camera e che ha incontrato donne di tutti i gruppi parlamentari. Questo metodo ha condotto ad una drastica diminuzione del fenomeno - quasi il 40 per cento in meno nelle violenze domestiche - ed è stato successivamente importato anche in altri paesi , come ad esempio la Spagna. Tale metodo si basa, appunto, sul presupposto che il quadro normativo, pur importante, non può essere sufficiente; ciò che risulta fondamentale, infatti, è il principio della collaborazione e del coordinamento - a livello centrale e locale - tra tutti i soggetti pubblici coinvolti e gli altri attori attivi nel contrasto al fenomeno, affiancato da una capillare campagna di informazione e sensibilizzazione ed alla creazione di un sistema integrato che assicuri sostegno alle vittime dei reati.

Il mio forte auspicio è che si riesca ad arrivare presto alla adozione di questo Piano straordinario perché credo che un approccio integrato e complessivo costituisca davvero l'unica reale possibilità di contrastare la violenza di genere che ha segnato tragicamente le vite di troppe donne, bambini, famiglie intere e quindi lo stesso tessuto sociale del nostro Paese.

Concludendo, immigrazione e violenza di genere sono due grandi sfide a cui la nostra società deve saper rispondere. Da come lo si farà, dipenderà il grado di civiltà del nostro paese. La tradizione democratica italiana è una risorsa che deve guidarci in questo percorso in cui ciascuno è tenuto a fare la propria parte.

Grazie.