Seminario 'Prima di prendere il mare. Dal reinsediamento all'ammissione umanitaria'
Signor Ministro, Signor Sottosegretario Giro, Presidente Manconi, Signor Ammiraglio, Eccellenze, Signore e Signori, è un piacere potervi accogliere qui alla Camera dei deputati.
Lo è ancora di più, per quanto mi riguarda, perché il tema su cui ci confronteremo oggi non è solo di grande - e drammatica - attualità, ma ha costituito il fulcro del mio lavoro per quindici anni, prima che assumessi il mio attuale incarico. Ringrazio dunque il Presidente Manconi, che, con il suo manifesto-appello, ci sprona tutti a trovare soluzioni per evitare le morti di migranti in mare. Morti che continuano ad avvenire - è degli ultimi giorni la notizia di altre decine di vittime nella traversata dalla Libia all'Italia - ed a cui non possiamo assuefarci.
Il mese scorso ho visitato i luoghi di sbarco dei migranti tratti in salvo grazie all'operato delle nostre autorità marittime, riscontrando ancora una volta la straordinaria professionalità e la generosità dei nostri corpi militari coinvolti nel soccorso marittimo. A bordo della nave San Giorgio, ho detto che il loro operato fa onore al Paese e che, di ciò, devono essere orgogliosi. In quell'occasione, ho anche voluto sottolineare la vocazione all'ospitalità della Sicilia, dove ha trovato accoglienza oltre un terzo delle persone arrivate via mare in Italia quest'anno.
Ancora una volta, ho potuto constatare come - in questo flusso dai numeri sicuramente molto alti - moltissimi di coloro che rischiano la vita per raggiungere l'Italia e l'Europa siano in cerca della salvezza, in fuga da guerre, violenze, persecuzioni. Quasi la metà delle decine di migliaia di uomini, donne e bambini arrivati sulle nostre coste quest'anno proviene da due soli Paesi, l'Eritrea e la Siria.
Un eritreo su venti, oggi, è stato costretto a lasciare il proprio Paese per sfuggire al servizio militare obbligatorio ed indefinito, esteso sia agli uomini che alle donne, ed alla mancanza di libertà. A tre anni e mezzo dal deflagrare del conflitto in Siria, oltre il 40% della popolazione - 9 milioni di persone - ha dovuto abbandonare la propria casa. Chi scappa da questi Paesi - come dalla Somalia, funestata da una guerra che dura da quasi venticinque anni ed ha costretto un quarto degli abitanti a divenire rifugiati o sfollati interni, dall'Afghanistan e da molti altri Stati dove le violenze e le persecuzioni sono quotidiane - non lo fa per scelta, ma perché è l'unica opzione possibile. Non si può, dunque, "aiutarli a casa propria", come invoca qualcuno, perché per i rifugiati non è possibile rimanerci, in quelle case.
Negli ultimi anni, l'aumento delle tensioni e dei conflitti si è tradotto in un numero più alto di persone in fuga: nel 2013, gli sfollati forzati - rifugiati, sfollati interni, apolidi e richiedenti asilo - nel mondo hanno superato i 50 milioni, numeri che non erano mai stati raggiunti dal Secondo Dopoguerra ad oggi. Di questi, appena il 14% dei rifugiati a livello globale è ospitato nei Paesi occidentali; l'86%, infatti, ha trovato rifugio nel Sud del mondo. Questo dato dovrebbe far riflettere e impedire inutili strumentalizzazioni.
Il nostro Paese, è innegabile, sta ricevendo un numero significativo di persone in fuga. Tuttavia, occorre inquadrare il grande sforzo che stanno compiendo le nostre autorità - nazionali e locali - nonché le associazioni, nella situazione geopolitica attuale. Se da noi le operazioni di soccorso in mare sono arrivate a salvare anche tremila persone in una singola giornata, tutti i giorni, da mesi, migliaia di rifugiati siriani attraversano la frontiera con la Giordania - un piccolo Stato dove ne sono giunti mezzo milione - e quella con il Libano, dove le persone provenienti dalla Siria sono ormai oltre un milione su poco più di quattro milioni di abitanti. A titolo di paragone, è come se in Italia fossero arrivati quattordici milioni di rifugiati!
Per ristabilire dei termini di paragone oggettivi, occorre sottolineare, inoltre, come anche altri Paesi europei siano alle prese con l'arrivo di richiedenti asilo o ne ricevano addirittura un numero maggiore di noi: se l'anno scorso oltre 28mila persone hanno richiesto protezione in Italia, in Germania sono state 100mila, in Francia 60mila, in Svezia - dove la popolazione è un decimo di quella italiana - 54mila. E, se i rifugiati in Francia, in Germania, nel Regno Unito sono ben oltre i 100, se non i 200, mila, in Italia sono meno di 80mila.
Per raggiungere l'Europa, quasi sempre a rischio della vita, le persone in fuga percorrono direttrici diverse. La rotta più utilizzata, soprattutto quest'anno, è quella che, dalla Libia sconvolta dall'instabilità e dalle violenze, conduce in Italia. Una rotta dove - a differenza di quanto accadeva solo pochi anni fa - non si respinge chi cerca la salvezza, ma lo si soccorre. E, se l'Italia non accoglie un numero maggiore di richiedenti asilo rispetto agli altri grandi Paesi europei, è pero altrettanto vero che deve sostenere un onere in più, ovvero quello del salvataggio in mare. Il Canale di Sicilia non è una frontiera italiana; è una frontiera comune europea, come comune deve essere la responsabilità di soccorrere chi tenta di trovare la salvezza in Europa attraversando il mare.
Il nostro incontro odierno parte, come dicevo all'inizio del mio intervento, da due presupposti sui quali ritengo vi sia un accordo generale tra chi è presente qui oggi: occorre trovare soluzioni per evitare le morti in mare ed occorre riconoscere che l'Europa intera debba adoperarsi per cercare soluzioni alle crisi in atto sia ai propri confini, che in luoghi più distanti. Devono dunque moltiplicarsi gli sforzi dei nostri Paesi e dell'Unione europea per affrontare le cause che spingono milioni di persone alle fuga, sostenendo le transizioni democratiche, assumendo un ruolo propulsivo nelle trattative di pace e nei processi di riconciliazione, sanzionando - ove necessario - i governi che violano sistematicamente i diritti umani o il diritto internazionale.
Da anni assistiamo impotenti - o, talvolta, assuefatti - alle morti dei migranti nel Mediterraneo. 'Mare Nostrum' è stata l'unica iniziativa attuata finora a rompere questa inerzia colpevole. Ma da sola non basta.
In questi mesi si è molto discusso dell'operato di FRONTEX, l'agenzia europea incaricata di coordinare le attività degli Stati membri alle frontiere esterne dell'UE. Di recente, il Presidente nominato della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, si è unito a quanti - Italia inclusa - chiedono uno stanziamento di fondi più consistente per quest'organismo, dotato al momento di un bilancio annuale di 90 milioni di euro. Negli ultimi mesi, è stato adottato, peraltro, il nuovo Regolamento FRONTEX sulle operazioni alle frontiere marittime, che fa riferimento all'obbligo di rispettare il diritto internazionale dei rifugiati ed al divieto di effettuare respingimenti.
Tuttavia, le attività di FRONTEX si limitano al controllo delle frontiere e l'agenzia non dispone di mezzi propri, dovendo contare su quelli forniti di volta in volta dai vari Stati membri UE per poter operare. Credo sia opportuno, dunque, valutare l'opportunità di ampliare il mandato di FRONTEX, estendendolo al salvataggio in mare, e di dotare l'agenzia di unità e risorse umane proprie. Come ritengo si possa prendere in esame la proposta di istituire una figura di coordinamento del soccorso marittimo nell'Unione europea, che operi da tramite tra i corpi e le organizzazioni coinvolte a vario titolo nelle operazioni.
'Prima del mare', infine, si può e si deve fare di più, offrendo a chi ha bisogno di protezione un'alternativa concreta alla traversata. Disponiamo già oggi di strumenti cui facciamo ricorso troppo poco, come quello del reinsediamento, il resettlement, ovvero il trasferimento - previe rigorose procedure di valutazione e selezione da parte delle organizzazioni internazionali e dei Paesi ospitanti - di rifugiati dagli Stati di prima accoglienza. L'anno scorso, alcune decine di migliaia di persone sono così state trasferite in Paesi occidentali senza dover rischiare la vita e, attraverso iniziative mirate di sostegno e di assistenza, hanno potuto avviarsi verso una prospettiva d'integrazione.
I numeri messi a disposizione dai singoli governi attraverso un sistema di quote sono esigui, se paragonati ai milioni di sfollati forzati al mondo, ma potrebbero - dovrebbero - aumentare, soprattutto per quanto riguarda gli Stati europei, che aderiscono in maniera limitata al principale programma mondiale di reinsediamento, quello dell'Agenzia ONU per i rifugiati, l'UNHCR.
Esiste inoltre una Direttiva europea, che - seppur mai attivata - concederebbe una protezione temporanea nei casi di afflusso massiccio sul territorio dell'Unione, afflusso che può verificarsi spontaneamente o a seguito di un'evacuazione. Ritengo sia il momento di valutare, assieme ai partner europei, la possibilità di attuarla per contribuire a salvare vite umane.
In ambito UE, si discute poi da molto tempo della possibilità di permettere la presentazione delle domande di protezione presso le sedi diplomatiche dei singoli Paesi, derogando alla legislazione europea, in base alla quale i richiedenti asilo devono trovarsi sul territorio di uno Stato membro per poterlo fare, e rilasciando poi un visto d'ingresso per permettere il completamento delle procedure d'asilo.
Nel suo intervento al Parlamento europeo, il Presidente Juncker ha fatto cenno, infine, alla possibilità di far esaminare le domande d'asilo agli esperti dell'Ufficio europeo di sostegno all'asilo - l'EASO - e dei vari Paesi membri negli Stati membri ed in quelli terzi di transito ove si verifichino afflussi massicci di potenziali rifugiati.
Sono idee e proposte che spero potranno essere ulteriormente rilanciate, ma che non possono essere attuate da un singolo Paese: richiedono, invece, una comune assunzione di responsabilità da parte di tutti gli Stati membri dell'UE. E l'Europa, fondata sul rispetto e la difesa dei diritti fondamentali, non può continuare ad assistere inerte mentre migliaia di persone vengono inghiottite dal Mediterraneo.
Seminario 'Prima di prendere il mare. Dal reinsediamento all'ammissione umanitaria'
Signor Ministro, Signor Sottosegretario Giro, Presidente Manconi, Signor Ammiraglio, Eccellenze, Signore e Signori, è un piacere potervi accogliere qui alla Camera dei deputati.
Lo è ancora di più, per quanto mi riguarda, perché il tema su cui ci confronteremo oggi non è solo di grande - e drammatica - attualità, ma ha costituito il fulcro del mio lavoro per quindici anni, prima che assumessi il mio attuale incarico. Ringrazio dunque il Presidente Manconi, che, con il suo manifesto-appello, ci sprona tutti a trovare soluzioni per evitare le morti di migranti in mare. Morti che continuano ad avvenire - è degli ultimi giorni la notizia di altre decine di vittime nella traversata dalla Libia all'Italia - ed a cui non possiamo assuefarci.
Il mese scorso ho visitato i luoghi di sbarco dei migranti tratti in salvo grazie all'operato delle nostre autorità marittime, riscontrando ancora una volta la straordinaria professionalità e la generosità dei nostri corpi militari coinvolti nel soccorso marittimo. A bordo della nave San Giorgio, ho detto che il loro operato fa onore al Paese e che, di ciò, devono essere orgogliosi. In quell'occasione, ho anche voluto sottolineare la vocazione all'ospitalità della Sicilia, dove ha trovato accoglienza oltre un terzo delle persone arrivate via mare in Italia quest'anno.
Ancora una volta, ho potuto constatare come - in questo flusso dai numeri sicuramente molto alti - moltissimi di coloro che rischiano la vita per raggiungere l'Italia e l'Europa siano in cerca della salvezza, in fuga da guerre, violenze, persecuzioni. Quasi la metà delle decine di migliaia di uomini, donne e bambini arrivati sulle nostre coste quest'anno proviene da due soli Paesi, l'Eritrea e la Siria.
Un eritreo su venti, oggi, è stato costretto a lasciare il proprio Paese per sfuggire al servizio militare obbligatorio ed indefinito, esteso sia agli uomini che alle donne, ed alla mancanza di libertà. A tre anni e mezzo dal deflagrare del conflitto in Siria, oltre il 40% della popolazione - 9 milioni di persone - ha dovuto abbandonare la propria casa. Chi scappa da questi Paesi - come dalla Somalia, funestata da una guerra che dura da quasi venticinque anni ed ha costretto un quarto degli abitanti a divenire rifugiati o sfollati interni, dall'Afghanistan e da molti altri Stati dove le violenze e le persecuzioni sono quotidiane - non lo fa per scelta, ma perché è l'unica opzione possibile. Non si può, dunque, "aiutarli a casa propria", come invoca qualcuno, perché per i rifugiati non è possibile rimanerci, in quelle case.
Negli ultimi anni, l'aumento delle tensioni e dei conflitti si è tradotto in un numero più alto di persone in fuga: nel 2013, gli sfollati forzati - rifugiati, sfollati interni, apolidi e richiedenti asilo - nel mondo hanno superato i 50 milioni, numeri che non erano mai stati raggiunti dal Secondo Dopoguerra ad oggi. Di questi, appena il 14% dei rifugiati a livello globale è ospitato nei Paesi occidentali; l'86%, infatti, ha trovato rifugio nel Sud del mondo. Questo dato dovrebbe far riflettere e impedire inutili strumentalizzazioni.
Il nostro Paese, è innegabile, sta ricevendo un numero significativo di persone in fuga. Tuttavia, occorre inquadrare il grande sforzo che stanno compiendo le nostre autorità - nazionali e locali - nonché le associazioni, nella situazione geopolitica attuale. Se da noi le operazioni di soccorso in mare sono arrivate a salvare anche tremila persone in una singola giornata, tutti i giorni, da mesi, migliaia di rifugiati siriani attraversano la frontiera con la Giordania - un piccolo Stato dove ne sono giunti mezzo milione - e quella con il Libano, dove le persone provenienti dalla Siria sono ormai oltre un milione su poco più di quattro milioni di abitanti. A titolo di paragone, è come se in Italia fossero arrivati quattordici milioni di rifugiati!
Per ristabilire dei termini di paragone oggettivi, occorre sottolineare, inoltre, come anche altri Paesi europei siano alle prese con l'arrivo di richiedenti asilo o ne ricevano addirittura un numero maggiore di noi: se l'anno scorso oltre 28mila persone hanno richiesto protezione in Italia, in Germania sono state 100mila, in Francia 60mila, in Svezia - dove la popolazione è un decimo di quella italiana - 54mila. E, se i rifugiati in Francia, in Germania, nel Regno Unito sono ben oltre i 100, se non i 200, mila, in Italia sono meno di 80mila.
Per raggiungere l'Europa, quasi sempre a rischio della vita, le persone in fuga percorrono direttrici diverse. La rotta più utilizzata, soprattutto quest'anno, è quella che, dalla Libia sconvolta dall'instabilità e dalle violenze, conduce in Italia. Una rotta dove - a differenza di quanto accadeva solo pochi anni fa - non si respinge chi cerca la salvezza, ma lo si soccorre. E, se l'Italia non accoglie un numero maggiore di richiedenti asilo rispetto agli altri grandi Paesi europei, è pero altrettanto vero che deve sostenere un onere in più, ovvero quello del salvataggio in mare. Il Canale di Sicilia non è una frontiera italiana; è una frontiera comune europea, come comune deve essere la responsabilità di soccorrere chi tenta di trovare la salvezza in Europa attraversando il mare.
Il nostro incontro odierno parte, come dicevo all'inizio del mio intervento, da due presupposti sui quali ritengo vi sia un accordo generale tra chi è presente qui oggi: occorre trovare soluzioni per evitare le morti in mare ed occorre riconoscere che l'Europa intera debba adoperarsi per cercare soluzioni alle crisi in atto sia ai propri confini, che in luoghi più distanti. Devono dunque moltiplicarsi gli sforzi dei nostri Paesi e dell'Unione europea per affrontare le cause che spingono milioni di persone alle fuga, sostenendo le transizioni democratiche, assumendo un ruolo propulsivo nelle trattative di pace e nei processi di riconciliazione, sanzionando - ove necessario - i governi che violano sistematicamente i diritti umani o il diritto internazionale.
Da anni assistiamo impotenti - o, talvolta, assuefatti - alle morti dei migranti nel Mediterraneo. 'Mare Nostrum' è stata l'unica iniziativa attuata finora a rompere questa inerzia colpevole. Ma da sola non basta.
In questi mesi si è molto discusso dell'operato di FRONTEX, l'agenzia europea incaricata di coordinare le attività degli Stati membri alle frontiere esterne dell'UE. Di recente, il Presidente nominato della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, si è unito a quanti - Italia inclusa - chiedono uno stanziamento di fondi più consistente per quest'organismo, dotato al momento di un bilancio annuale di 90 milioni di euro. Negli ultimi mesi, è stato adottato, peraltro, il nuovo Regolamento FRONTEX sulle operazioni alle frontiere marittime, che fa riferimento all'obbligo di rispettare il diritto internazionale dei rifugiati ed al divieto di effettuare respingimenti.
Tuttavia, le attività di FRONTEX si limitano al controllo delle frontiere e l'agenzia non dispone di mezzi propri, dovendo contare su quelli forniti di volta in volta dai vari Stati membri UE per poter operare. Credo sia opportuno, dunque, valutare l'opportunità di ampliare il mandato di FRONTEX, estendendolo al salvataggio in mare, e di dotare l'agenzia di unità e risorse umane proprie. Come ritengo si possa prendere in esame la proposta di istituire una figura di coordinamento del soccorso marittimo nell'Unione europea, che operi da tramite tra i corpi e le organizzazioni coinvolte a vario titolo nelle operazioni.
'Prima del mare', infine, si può e si deve fare di più, offrendo a chi ha bisogno di protezione un'alternativa concreta alla traversata. Disponiamo già oggi di strumenti cui facciamo ricorso troppo poco, come quello del reinsediamento, il resettlement, ovvero il trasferimento - previe rigorose procedure di valutazione e selezione da parte delle organizzazioni internazionali e dei Paesi ospitanti - di rifugiati dagli Stati di prima accoglienza. L'anno scorso, alcune decine di migliaia di persone sono così state trasferite in Paesi occidentali senza dover rischiare la vita e, attraverso iniziative mirate di sostegno e di assistenza, hanno potuto avviarsi verso una prospettiva d'integrazione.
I numeri messi a disposizione dai singoli governi attraverso un sistema di quote sono esigui, se paragonati ai milioni di sfollati forzati al mondo, ma potrebbero - dovrebbero - aumentare, soprattutto per quanto riguarda gli Stati europei, che aderiscono in maniera limitata al principale programma mondiale di reinsediamento, quello dell'Agenzia ONU per i rifugiati, l'UNHCR.
Esiste inoltre una Direttiva europea, che - seppur mai attivata - concederebbe una protezione temporanea nei casi di afflusso massiccio sul territorio dell'Unione, afflusso che può verificarsi spontaneamente o a seguito di un'evacuazione. Ritengo sia il momento di valutare, assieme ai partner europei, la possibilità di attuarla per contribuire a salvare vite umane.
In ambito UE, si discute poi da molto tempo della possibilità di permettere la presentazione delle domande di protezione presso le sedi diplomatiche dei singoli Paesi, derogando alla legislazione europea, in base alla quale i richiedenti asilo devono trovarsi sul territorio di uno Stato membro per poterlo fare, e rilasciando poi un visto d'ingresso per permettere il completamento delle procedure d'asilo.
Nel suo intervento al Parlamento europeo, il Presidente Juncker ha fatto cenno, infine, alla possibilità di far esaminare le domande d'asilo agli esperti dell'Ufficio europeo di sostegno all'asilo - l'EASO - e dei vari Paesi membri negli Stati membri ed in quelli terzi di transito ove si verifichino afflussi massicci di potenziali rifugiati.
Sono idee e proposte che spero potranno essere ulteriormente rilanciate, ma che non possono essere attuate da un singolo Paese: richiedono, invece, una comune assunzione di responsabilità da parte di tutti gli Stati membri dell'UE. E l'Europa, fondata sul rispetto e la difesa dei diritti fondamentali, non può continuare ad assistere inerte mentre migliaia di persone vengono inghiottite dal Mediterraneo.
Vi ringrazio dell'attenzione.