25/11/2017
Aula di Palazzo Montecitorio

Intervento introduttivo all'iniziativa '#InQuantoDonna', in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne

Buongiorno a tutte. È davvero molto bello e per me una grane emozione vedere quest'Aula tutta al femminile. È bello vedere che siamo in tantissime. Ed è proprio da qui che voglio partire, da questa presenza così numerosa per la quale voglio ringraziare tutte voi. Ringrazio anche la Sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, per essere qui oggi.

Fin dai primi incontri per la preparazione di questo evento, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, abbiamo capito che ci sarebbe stato un problema: accogliere tutte le richieste che stavano giungendo. Ne abbiamo ricevute moltissime e da tutta Italia. Ringrazio quindi i centri antiviolenza, i sindacati, e tutte le associazioni che hanno creduto nell'importanza di questa iniziativa e hanno collaborato all'organizzazione della giornata. Abbiamo superato le 1.400 adesioni! Non era mai accaduto che la Camera ospitasse un evento di tale portata!

Certo, i detrattori ci sono sempre, dicono: «È un'iniziativa simbolica». È vero, ma è l'iniziativa con il più forte significato simbolico che si potesse organizzare per un avvenimento come questo.

Una presenza così imponente, qui a Montecitorio, ha un senso che non può sfuggire a nessuno: le donne italiane hanno bisogno di attenzione e ascolto. Per raccontare la violenza subita, certo, ma anche per raccontare la loro storia di riscatto. Per mostrare la loro forza.

E allora mettiamo a fuoco il tema di oggi e partiamo da un dato: la metà delle donne che vengono uccise sul pianeta sono uccise per femminicidio. Sono uccise, cioè, in quanto donne e per mano di chi dovrebbe amarle. In Italia ne viene uccisa una ogni due giorni e mezzo. Lo dice l'Istat. Ed è un dato spaventoso. Ma sbaglia chi pensa che la violenza sia una questione che riguarda esclusivamente le donne. No, riguarda il Paese e sfregia tutta la nostra comunità.

Quindi, se su questo tema vogliamo fare sul serio, non può esserci solo la risposta delle vittime o delle altre donne, come in gran parte invece avviene ora: sono quasi sempre le donne a protestare, a ribellarsi, a promuovere mobilitazione.

Del resto, purtroppo, anche quando si parla della necessità di rilanciare l'occupazione femminile, di cui l'Italia è fanalino di coda in Europa, si sente ripetere che è «roba da donne». E anche quando si affronta un problema legato alle storture del nostro welfare si sente commentare che «è roba da donne…».

No, non è solo «roba da donne». È roba di tutti, che riguarda il presente e il futuro del nostro Paese.

È come se, di fronte a un atto di antisemitismo, fossero solo le comunità ebraiche a sentirsi chiamate in causa e a condannarlo, anziché l'intera società.

O come se, di fronte a un atto di razzismo, reagissero soltanto quelli che ne vengono colpiti direttamente e non anche tutti gli altri.

Perché gli uomini che invece vogliono bene alle donne e le rispettano - e ce ne sono tanti- rimangono a guardare? Perché?

Non vi sembra un'incoerenza, che la gran parte degli uomini, pur rifuitando la violenza, non si sentano coinvolti in questa battaglia?

Spiace dirlo, ma a questo silenzio, a questa incoerenza, non sfugge nemmeno il mondo politico e istituzionale, con qualche positiva eccezione.

Colgo l'occasione per dire un «grazie» sincero al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha definito la violenza contro le donne con parole fermissime: «una ferita a tutta la società». E il Presidente ci farà l'onore, nel pomeriggio, di ricevere una nostra delegazione al Quirinale.

La prima volta che ho preso la parola in quest'Aula era il 16 marzo del 2013, appena eletta Presidente, per il mio discorso di insediamento. Un'emozione incredibile, potete immaginare. E ho voluto inserire già quel giorno, fra i temi che ritenevo prioritari, quello della violenza sulle donne. «La violenza travestita da amore», la chiamai.

Quel discorso rappresentò per me una sorta di viatico che ho sempre seguito e messo in pratica nelle mie azioni di questi quasi cinque anni, Nelle mie azioni politiche e istituzionali.

È stato bello quindi ratificare la Convenzione di Istanbul come primo atto di questa legislatura. È stata una gioia per me, come per tante deputate, che vedo e che ringrazio di essere qui. Una Convenzione, dicevo, che è una pietra miliare nella lotta contro la violenza di genere perché afferma un principio chiave, lo definirei rivoluzionario: la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani, non una faccenda privata da trattare in famiglia.

È una questione su cui tutti e tutte dobbiamo impegnarci, a cominciare dallo Stato.

Alla Convenzione di Istanbul sono seguiti diversi provvedimenti legislativi in tema di violenza, a partire dal cosiddetto "decreto femminicidio", poi convertito in legge. Una legge che prevede una serie di misure penali e di procedura penale per tenere lontano gli uomini violenti e proteggere maggiormente le donne.

Ma c'è stato anche il provvedimento sugli orfani di femminicidio, approvato all'unanimità qui alla Camera e per il quale si attende a breve il sì definitivo del Senato.

Non nego che ci possano essere state anche delle manchevolezze e delle lacune. È accaduto per esempio con il reato di stalking, che per effetto della recente riforma del processo penale può essere estinto con un risarcimento da parte del persecutore, il quale così può farla franca in barba anche al volere della vittima. Ma a giorni, vi anticipo, questo errore sarà corretto. Quando si sbaglia bisogna ammetterlo e con umiltà correre ai ripari; ed è quello che stiamo facendo.

Così come c'è da auspicare che venga aumentato l'indennizzo che lo Stato riconosce alle vittime dei reati violenti.

È evidente, però, che le leggi non bastano. Il problema è culturale.

È questo il punto decisivo. Agli uomini è richiesto di fare un salto in avanti: uscire finalmente da una cultura, da una mentalità, che per secoli, per millenni, ha ridotto la donna a una proprietà.

Ecco perché è fondamentale agire contro la violenza andando alle radici: impegnarsi sul piano educativo già in tenera età, insegnando ai bambini e alle bambine la parità di genere, il rispetto per le donne e per la loro libertà. Le donne devono poter dire no ed essere rispettate!

Seguono lo stesso percorso il Piano per l'educazione al rispetto e alle differenze e le Linee guida per l'educazione alla parità, presentati dalla ministra Fedeli a fine ottobre. Vanno in questa direzione e noi la ringraziamo.

Molte di voi hanno espresso anche preoccupazione per un femminile che regredisce e non acquista mai centralità nel dibattito pubblico e politico. Mi avete espresso preoccupazione per quell'atteggiamento mentale, quel «benaltrismo» che troppo spesso viene invocato quando si parla di questioni di genere. C'è ben altro che conta di più, che è più importante.

Invece questa giornata va nella direzione opposta!

Questa giornata mette le donne al centro del dibattito.

Nelle ultime settimane c'è stata anche la questione odiosissima delle molestie sul luogo di lavoro. Il caso Weinstein ha scoperchiato questa vergogna in un mondo glamour e patinato come quello del cinema americano, provocando un terremoto in tanti altri ambiti della società.

In Italia non ha avuto certo lo stesso effetto. Nel nostro Paese questo tema fatica ad affermarsi. Mi farebbe piacere se ciò accadesse perché qui da noi non ci sono molestatori. Ma ho paura che non sia così.

La verità, care amiche, è che le donne tendono a non denunciare le molestie - e purtroppo, ci dice l'Istat, neanche le violenze e gli stupri - perché temono di non essere credute, temono di perdere il lavoro. Perché sanno che in questo Paese persiste un fortissimo pregiudizio contro di loro, quasi che debbano giustificarsi di aver denunciato. E invece no, i violenti vanno denunciati! Perché non sarà una non denuncia a salvarvi! Dovete denunciare!

È il momento di non stare più zitte.

Zitte per paura, zitte per vergogna, zitte per la speranza che tutto prima o poi si aggiusti. Zitte per quieto vivere. Ma quando c'è di mezzo la violenza, niente mai si rimette a posto. E il silenzio non è un rifugio. Non offre vie di scampo.

- Il silenzio divide, è la parola invece a unire.

- Il silenzio isola, è la parola invece ad aggregare.

- Il silenzio uccide, è la parola invece a salvare.

Per questo oggi voglio dare la parola a voi. Voi che il silenzio l'avete rifiutato.

Voi che avete deciso da tempo di parlare e di riprendervi la vostra libertà. Per questo oggi voi avete diritto di parola in questa Aula.

Ma quest'Aula oggi dice molte altre cose. Dice che siamo unite e siamo tantissime! Qui a Montecitorio come nel Paese. Perché noi donne siamo il 51% della popolazione. Siamo la maggioranza, non una sparuta minoranza!

E sappiamo farci sentire!

Sappiamo trovare la forza di rialzarci e parlare pubblicamente senza vergogna, anche della violenza.

E il Paese non può ignorarci più.

Il Paese non può ignorarci più!

Vi ringrazio.