30/11/2017
Firenze, Accademia della Crusca

Partecipazione alla conferenza ‘L’italiano oggi nella società e nelle istituzioni’

Buongiorno a tutti e a tutte.

Saluto Claudio Marazzini, Presidente dell'Accademia della Crusca; il caro amico Francesco Sabatini, Presidente onorario. Al quale ricordo che sì, noi ci siamo incontrati, abbiamo chiacchierato avendo dietro delle bellissime montagne; ma lo abbiamo fatto con davanti una biblioteca altrettanto straordinaria, la sua biblioteca, che ha una storia rocambolesca e che meriterebbe un film. Ma questa è un'altra storia!

Saluto anche i relatori e le relatrici che prenderanno la parola nel corso di questa mattinata, gli Accademici e le Accademiche che sono in questa bella sala. Saluto Giovanna Frosini, Luisa Napolitano, Carlo Bartoli, Paolo Corbucci, la professoressa Cecilia Robustelli, che già conosco; Valdo Spini, anche lui ho il piacere di conoscerlo già; abbiamo anche la Vicesindaca di Firenze, Cristina Giachi, e l'Assessore regionale Vittorio Bugli. Poi saluto le autorità militari e civili, il Prefetto, il Questore. Saluto e ringrazio gli studenti e le studentesse che sono qui dal liceo classico Galileo Galilei di Firenze e dal liceo scientifico Enriques Agnoletti di Sesto Fiorentino. Un saluto anche alle loro insegnanti e agli insegnanti, perché io ritengo che loro svolgano un'attività realmente di prima linea, in tutti i sensi: sono un vero presidio di formazione, di cultura, in alcuni territori spesso anche di legalità. Non vi ringrazierò mai abbastanza per quello che fate.

Oggi io sono qui a intervenire su un tema cruciale per la nostra cultura: l'Italiano oggi nella società e nelle istituzioni. Anche se mi procura uno strano effetto affrontarlo davanti a voi che siete i più profondi conoscitori di questa materia; e farlo qui, in questo tempio della nostra bella lingua.

Una lingua che ci ha messo un po' a diventare unitaria. Quando nel 1861 abbiamo sradicato le «piccole patrie», e finalmente siamo arrivati ad essere un popolo solo, noi in quel momento eravamo sì un popolo, ma che si esprimeva in non so quanti dialetti regionali, una babele di parlate. La nostra era una nazione che nasceva con 25 milioni di abitanti, all'epoca, ma appena 2 milioni e mezzo erano quelli più colti che riuscivano a parlare in italiano.

Poi ci sono state la scuola, la Prima guerra mondiale, l'immigrazione interna e tutti questi fattori hanno favorito la diffusione dell'italiano. È storia nota. Ma malgrado tutto questo c'è voluto un po' di tempo, abbiamo dovuto aspettare gli anni Cinquanta del Novecento per lasciarci alle spalle questi residui di analfabetismo. Abbiamo dovuto aspettare che arrivasse la televisione, il mezzo di comunicazione che per primo è stato capace di abbattere i confini, specialmente i confini interni, e aprire una finestra nelle località del nostro paese. Più di ogni cosa, la televisione è stata capace di parlare a tutti - e di far parlare a tutti - la stessa lingua.

Non vorrei esagerare nel dire che la vera unità d'Italia l'ha fatta la Tv, perché sarebbe improprio e, per carità, non vorrei sollevare le ire di chi sostiene che la versione storica è quella giusta, quella dei nostri padri del Risorgimento; però io penso che la tv abbia giocato un ruolo importante.

Una televisione che alle origini era essa stessa diversa, era una tv con un'indubbia funzione pedagogica e divulgativa. C'era naturalmente spazio per l'intrattenimento, ma c'era anche un progetto di educazione degli italiani. Un'educazione in senso generale, nel senso appunto della lingua, ma anche della formazione di una coscienza civica.

In quell'Italia da poco divenuta Repubblica, la politica era vissuta con slancio. Eravamo molto lontani da quel disamore che oggi avvertiamo, da quel distacco che oggi c'è da parte dei cittadini nei confronti dei partiti, delle istituzioni.

Tutto questo non ci poteva essere, in quell'Italia lì. Quell'Italia, politicamente viva e mossa da alti ideali, una sera del 1960 aveva visto apparire sul piccolo schermo in bianco e nero un'immagine mai vista prima. E cosa si vede in quell'Italia del 1960? Si vede sullo schermo un'immagine con al centro un tavolo; poi c'è un esponente politico seduto e accanto a lui c'è un moderatore; e una tribuna di fronte, una tribuna di giornalisti di varie testate - certo ce n'erano di meno rispetto a oggi, ma ce n'erano - che cominciano a fare domande all' esponente politico.

Quell'esperimento televisivo si chiamava Tribuna elettorale. Ed era stato fortemente caldeggiato dalla politica del tempo che voleva essere conosciuta meglio dagli elettori, quella politica uscita dalla guerra e che doveva rimettersi in piedi dopo il fascismo. La gente guardava la Tv, ascoltava gli esponenti politici che con pacatezza e con i dovuti tempi esprimevano e spiegavano un programma politico, parlavano anche di alleanze e mettevano i telespettatori in condizione di poter scegliere chi votare e chi non votare.

Oggi tutto questo è vecchio, una situazione di questo genere si è trasformata in una spettacolarizzazione, tutto è esibizione. Oggi l'obiettivo del politico che va in tv, più che spiegare quello che vuole fare, sembra essere denigrare l'avversario e urlargli addosso per non consentirgli di parlare. È cambiata la forma, ma è anche cambiata la sostanza. Ed è cambiato anche il linguaggio. Io questi codici comportamentali li trovo una forma di totale involuzione. Poi però ci dobbiamo chiedere anche che sorte abbia avuto la nostra lingua. Come se la passa oggi l'italiano?

Come tutte le lingue muta, cambia. Assorbe forestierismi che non ci piacciono punto, diventa più colloquiale e anche più semplificata.

Una semplificazione che è stata accresciuta dalla globalizzazione, dall'avvento di social network e messaggi vocali, di chat, email e Sms, tutti strumenti che richiedono una comunicazione stringata, essenziale, elementare.

Questi strumenti hanno soppiantato la televisione quanto a velocità nella diffusione di notizie, ma anche quanto a capacità di abbattere i confini: di andare non solo a conoscere tutti gli angoli del nostro Paese, ma anche andare oltre e aprire le finestre sul mondo. Non bisogna averne paura. Perché la Rete e i social media sono uno straordinario passaggio epocale e come tutti i passaggi epocali si porta dietro diverse conseguenze: smottamenti, slittamenti, adeguamenti della lingua e adeguamenti delle singole parole.

Purtroppo di tutto questo ha risentito il congiuntivo - lo vediamo a più livelli - e anche la ricercatezza di alcuni termini che aggiungono sfumature alla nostra bella lingua. Tutto questo ne ha risentito in negativo.

Dieci anni fa, collegandomi a quello che è stato detto dal professor Sabatini, noi non dicevamo «cliccare», «postare», «taggare», «chattare»: non c'erano questi termini, ma la lingua li ha assorbiti come un fait accompli. Li ha assorbiti perché è la nostra vita che ha assorbito i cambiamenti: la tecnologia si è in qualche modo impossessata della nostra vita e con essa anche della nostra lingua.

Mi domando allora come mai, se questo è avvenuto, nel 2017 siamo invece ancora qui a constatare che alcuni hanno proprio delle difficoltà a seguire lo stesso approccio mentale quando si dice «ministra», «magistrata» o «ingegnera». Mentre nessuno batte ciglio quando dico «contadina», al femminile. C'è chi sostiene che non si dice «ministra» o «magistrata» perché la forma maschile è neutra - io questo azzardo proprio non l'ho capito - e dunque se dobbiamo essere tutti declinati al neutro allora anche una donna che lavora la terra è considerata è «contadino», «operaio». Invece no: «contadina» o operaia», nessuno lo contesta.

Ringrazio ancora una volta l'Accademia della Crusca, la ringrazio per l'ennesima volta. In questi anni, cari Presidenti, io non so quante volte ho fatto presente all'opinione pubblica il lavoro di questa Accademia, ma l'ho fatto con cognizione perché questa Accademia ci aiuta a capire il mondo in cui viviamo e come il linguaggio sia parte dell'evoluzione della società, della cultura, della civiltà. Ringrazio anche la professoressa Robustelli, perché non si è mai tirata indietro rispetto a questo e perché l'Accademia della Crusca ha sempre voluto esprimere una posizione chiara e inequivocabile sull'argomento. Eppure, a dispetto del loro intervento dirimente, c'è tanta gente che ancora oggi dice che declinare al femminile è brutto, è cacofonico, non si può sentire.

E' innegabile che una parola ci possa sembrare brutta perché non siamo abituati a sentirla. Nel linguaggio siamo tutti molto conservatori e conservatrici, siamo abituati e non accettiamo facilmente di rinunciare alle nostre abitudini. Un linguaggio che non siamo abituati a sentire non ci piace, lo definiamo brutto.

C'è da dire che però non ho assistito a sollevazioni popolari quando le riunioni sono diventate meeting, le bambinaie baby-sitter e le marche un brand. Non ho sentito, tranne i linguisti che hanno cittadinanza in questa Accademia, persone sollevarsi per protestare, per dire che non si può fare. E mi pare pure che quel gergo social che ho menzionato poco fa, e che è veramente brutto - cliccare, taggare, chattare - sia entrato di soppiatto nel nostro linguaggio quotidiano e nessuno mette in discussione che si dica così. Allora io trovo insensata e pretestuosa l'accusa di cacofonia rivolta alla legittima richiesta di declinare i ruoli al femminile quando trattasi di donna, quando è coinvolta una donna. Non lo capisco più. Perché i cambiamenti dovuti alla tecnologia vengono assimilati, metabolizzati, e quando invece c'è di mezzo l'evoluzione del ruolo delle donne si fa tanta resistenza? Questo è il punto.

La verità, cari amici e care amiche, è che ciò nasconde una discriminazione profonda. Chi si ripara dietro la «questione cacofonica» del femminile proprio non ce la fa. Le donne non devono creare problemi, sono arrivate ai posti di vertice? Che si accontentino del maschile, perché quei posti saranno sempre appannaggio degli uomini e dunque il maschile va bene per tutti. Non si accetta che le donne possano arrivare ai vertici, e allora le si mascolinizza. Mi si chiede di cambiare genere perché svolgo un ruolo istituzionale, devo diventare "il Presidente". Perché mai, se abbiamo la contadina, l'operaia? Perché mai?

Io, che penso di avere avuto da sempre questa consapevolezza, me la sono portata dietro anche a Montecitorio, in questa XVII legislatura. Una legislatura importante per il nostro paese: siamo il 30 per cento di deputate e senatrici, dunque di parlamentari. Negli stessi anni anche nella società si è visto un avanzamento notevole delle donne che hanno ricoperto ruoli che nella storia sono stati sempre e solo appannaggio di uomini. E allora ci vuole, si impone, anche un cambiamento, un adeguamento del linguaggio alla società che cambia.

Ho preso sul serio questo tema e ho cominciato a chiedere che se ne tenesse conto. Prima informalmente, in Aula, quando mi ringraziavano dicendo "grazie, signor Presidente", facevo presente che non ero un uomo e che anche in Aula potevamo essere tutti d'accordo. Come ci sta "signor Presidente", se io sono una donna? Poi, visto che questo diventava motivo di polemica - è strano capire come si possa concepire una polemica sul fatto che io non sono un uomo - allora ho detto: mandiamo una lettera ai colleghi e alle colleghe.

E infatti mando una lettera e dico che "è opportuno richiamare le cariche e i ruoli istituzionali in modo da garantire il rispetto dell'identità di genere".

La Segretaria Generale della Camera, Lucia Pagano, manda una circolare a tutti gli uffici per chiedere che negli atti parlamentari venga inserito il genere femminile. Allora, signore e signori, per la prima volta nella storia della Repubblica - in 70 anni questo non era mai accaduto - il femminile entra a Montecitorio e nei suoi atti. Voi potreste dire che non è una cosa così importante, ma fino a quel momento era come se le donne non fossero mai entrate nell'istituzione parlamentare. Non ce n'era traccia: "il deputato Laura Bianchi", "il ministro Giovanna Rossi". Io penso che questo punto sia cruciale. Noi donne siamo il 51 per cento della popolazione. Noi non ci dobbiamo adattare, perché noi siamo la maggioranza!

Dobbiamo uscire dalla sindrome perenne della minoranza, quella che porta le donne ad accontentarsi: non siamo minoranza e dunque esigiamo rispetto, e il rispetto passa anche per la declinazione di genere! Non mi rispetti se mi cambi genere perché sono ai vertici. Non riconosci la mia storia e quella di milioni di donne. Non consenti a noi di essere in una posizione che ritieni essere solo una posizione appannaggio di uomini. Come va negli altri paesi europei? Negli altri paesi europei tutto questo è stato superato da molti anni. Io ricevo costantemente delegazioni parlamentari di altri paesi e mi confronto con loro. Non ci possono credere, i colleghi spagnoli, quando racconto gli aneddoti dell'Aula, perché poi la butto sull'ironia: se mi chiami "signor Presidente", alla fine del tuo intervento ti ringrazio e ti dico "grazie, signora deputata"; ed essendo tu un uomo, scoppiano tutti a ridere. Ma è altrettanto ridicolo se chiami me "signor Presidente". E quando questa cosa viene raccontata ai nostri ospiti stranieri non ci possono credere. In Spagna si dice «señora Presidenta», non c'è questione; in Francia «Madame la Présidente», non c'è questione. E in Germania, Angela Merkel ha preteso e ottenuto di essere chiamata sempre e comunque «Cancelliera». Per quale motivo in Italia c'è questa resistenza? Perché il blocco è culturale: è profondo, è radicato, è ancorato in una mentalità che non vuole riconoscere alle donne la loro presenza nella scala sociale più alta. Perché va bene quando si fanno lavori più semplici, non va bene quando si sale la scala sociale.

E dunque mi fa piacere che dopo la nostra decisione alla Camera dei deputati - ma anche in concomitanza con iniziative come qui a Firenze, la Vicesindaca mi diceva, già avviate in precedenza - tutto questo sia anche di sprone ad altre amministrazioni che hanno fatto a volte delle direttive, come nel nostro caso, e hanno fatto proprio delle leggi, dei provvedimenti specifici in merito alla declinazione di genere.

La questione non è solo di forma, la questione è di sostanza perché quello che non viene nominato non esiste, e quindi va detto, va nominato.

Ne era convinto anche il professor Tullio De Mauro, straordinario linguista e Accademico della Crusca, che voglio ricordare qui con una sua bella frase. Il professor De Mauro è stato anche membro della Commissione sui fenomeni di odio e di discriminazione che io ho istituito alla Camera, ne è stato fino all'ultimo membro attivo. Ecco, lui disse questa frase: «Meglio qualche pesantezza e rigidità che usi discriminatori delle parole. Meglio "bambini e bambine", "donne e uomini" piuttosto che "bambini" e "uomini", cassando l'altra metà del cielo». Questo pensiero è quello che io sto cercando di dire qui: non è giusto, è completamente sbagliato anche dal punto di vista sociale, perché - come ho detto - le donne in questo paese sono il 51%. E allora, se si ama davvero la propria lingua, non si può imbalsamarla, non si può impedirle di trasformarsi e dunque di rimanere viva.

Questo vale per tutti: vale per chi lavora nelle istituzioni, nella politica, vale per il giornalismo che può essere apripista e attore del cambiamento, o può bloccarlo o, per lo meno, tentare di rallentarlo. A me fa piacere che oggi ci siano molte testate che hanno deciso di farsi parte attiva del cambiamento e rispettosamente parlano di "ministra", di "sindaca", di "assessora", perché è dovuto, semplicemente è una presa d'atto della realtà. Così come è importante farlo nelle scuole, e la Ministra Fedeli recentemente ha fatto delle Linee-guida importanti sul rispetto di genere anche nel linguaggio.

In conclusione, l'italiano ha già subito tante trasformazioni. Oggi l'italiano che noi parliamo non è quello di cento anni fa, e fra cento anni l'italiano non sarà più quello di oggi. È stato migliore? Sarà peggiore? Non lo so. Chi può dirlo? Di una cosa, però, sono certa: proprio come in passato, l'italiano avrà i suoi pregi e i suoi difetti. Saranno solo altri pregi e altri difetti.

Vi ringrazio.