25/07/2017
Montecitorio, Sala Aldo Moro

Saluto introduttivo alla presentazione del libro ‘Non aspettarmi vivo. La banalità dell’orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti’, di Anna Migotto e Stefania Miretti

Buon pomeriggio a tutte e a tutti.

So che la Ministra è in arrivo, ma noi andiamo avanti perché altrimenti non rispettiamo la tabella di marcia. Saluto il direttore dell'Ispi, Paolo Magri, mi fa piacere vederlo; il capo struttura di Rai3 Giovanni Anversa, col quale ci siamo incontrati qui alla Camera anche recentemente per presentare i risultati della Commissione Jo Cox, la commissione sull'odio. Ringrazio e saluto le due autrici: Anna Migotto, che conosco da parecchi anni, e Stefania Miretti.

Foreign fighters. Questa definizione fino a pochi anni fa non diceva niente, non ci faceva drizzare i capelli: era una definizione non abituale nella comunicazione e invece oggi ha un significato ben preciso. Un significato che ci inquieta e ci interroga anche su quello che sta succedendo nel nostro pianeta Chi sono questi foreign fighters? Perché diventano foreign fighters? Quali sono i loro pensieri? Come arrivano a questa decisione così radicale? Sono ragazzi che a volte crescono nelle periferie delle nostre città, altre volte crescono in altre città ma sono comunque giovani.

Nel libro "Non aspettarmi vivo" si cerca di rispondere a queste domande che dovrebbero trovare risposte al di là dei luoghi comuni. Domande impegnative specialmente nei paesi in cui questo fenomeno diventa centrale, e la Tunisia è uno di questi. Perché? Perché dalla Tunisia parte il più alto numero di ragazzi che si uniscono a Daesh. Le due autrici qui presenti fanno un lavoro molto articolato, durato tre anni, in cui si cerca di dare le risposte e le risposte a volte ci meravigliano. Abbiamo di fronte un paese, la Tunisia, vicino all'Italia, toccato dalle cosiddette primavere arabe, il paese in cui nasce la primavera araba, un paese che riesce a trasformare tutto questo in qualcosa di positivo. Si lavora per una Costituzione, ci si arriva nel 2014, e quindi c'è una partecipazione molto sentita da parte delle persone alla ricostruzione democratica.

Ma è anche un paese afflitto da una gravissima crisi economica senza precedenti, con una disoccupazione giovanile alle stelle dovuta anche ad un drastico calo del turismo. Ho visitato questo paese in più occasioni, da Presidente della Camera ho fatto una visita ufficiale proprio all'indomani degli attentati terroristici al Bardo, era il marzo del 2015 quando ho incontrato il Presidente dell'Assemblea dei rappresentanti del popolo, una figura molto importante in Tunisia, Mohamed Ennaceur. Con lui abbiamo avuto una lunga discussione sulla situazione del paese e in occasione della Marcia contro il terrorismo a cui ho partecipato ho incontrato anche delle donne. Donne resistenti: le donne sono importanti in Tunisia, le donne hanno lottato per avere una Costituzione che non creasse discriminazioni. E le ho incontrate insieme all'allora Ministra della Cultura Latifa Lakddhar, insieme a un gruppo di deputate e di attiviste. Con loro siamo state un intero pomeriggio e abbiamo parlato della gravissima situazione economica del paese, della condizione disperata di molti giovani. Ma quello che mi faceva veramente strano era che alcune di queste donne autorevoli che erano venute lì parlavano di parenti, ad esempio di un cugino che era partito con Daesh. Erano figure di peso della società tunisina, ed era come se il fenomeno fosse entrato nelle case, nelle famiglie, e se ne parlasse senza più veli. Diceva una giovane avvocata: "ho una cugina nel sud del paese e suo fratello è partito." Una volta si intendeva "è partito per l'Europa, è partito per andare a lavorare in Francia". Mi ricordo che io ingenuamente chiesi: "E' partito per dove?" "E' partito per arruolarsi con Daesh." Non era una famiglia delle più disagiate, delle più emarginate. Direi proprio di no. Allora questa cosa mi aveva davvero colpito.

Quando poi nel 2015 il premio Nobel venne dato al famoso Quartetto lo trovai un segno bellissimo, perché il Quartetto era fatto da rappresentanti della società civile. Li incontrai qui, in questa stessa sala: erano l'associazione degli imprenditori, l'associazione dei sindacalisti, poi c'erano gli attivisti per i diritti umani e gli avvocati. Questi quattro tasselli della società civile avevano contribuito, e stanno contribuendo, moltissimo alla democratizzazione della Tunisia.

E poi i rapporti istituzionali, ve lo devo dire perché è importante. In un libro così si mette a fuoco un aspetto, ma intorno c'è un'azione che viene messa in atto dalle istituzioni. Noi come Camera dei Deputati abbiamo voluto aiutare l'Assemblea del popolo tunisina su più livelli. A partire da quello europeo: abbiamo avuto 1,6 milioni di euro insieme ai francesi, abbiamo fatto un gemellaggio per aiutare l'Assemblea elettiva tunisina a fare un percorso e a mutuare le pratiche legislative, che non sono facili né ovvie. In aggiunta a questo abbiamo stilato nel 2016 con Ennaceur, sempre in questa sala, un protocollo bilaterale per aiutare il percorso che stanno facendo con fatica in Tunisia da assemblea a assemblea, costituendo anche un gruppo di amicizia di dodici deputati, sei italiani e sei tunisini. Credo che per sostenere la Tunisia oggi si possano fare molte cose, tra cui anche il contrasto al terrorismo e al diffondersi della radicalizzazione. Questa è una piaga sociale contro la quale dobbiamo essere tutti uniti, qui non esiste 'noi e loro', è una piaga sociale che ci riguarda tutti, è una tragedia comune. E' una prova che noi dobbiamo saper superare, dobbiamo unire le forze con tutti i paesi della sponda sud del Mediterraneo e anche oltre per limitare e arginare il pericolo della radicalizzazione e stare vicino ai nostri amici musulmani che sono i più esposti.

Qui alla Camera, di nuovo, le deputate dell'Intergruppo che per la prima volta esiste qui sui diritti delle donne hanno voluto fare una iniziativa intitolata "le donne contro Daesh". Abbiamo invitato a Montecitorio le madri europee di ragazzi europei, puramente europei, partiti per andare a combattere in Siria e mai tornati. E queste donne ci hanno parlato del loro impegno oggi attivissimo: vanno negli altri Parlamenti, vanno nelle conferenze, vanno nei think tank, ovunque possono, nelle scuole, nelle università, a parlare di che significa vedere un figlio radicalizzarsi dall'oggi al domani. Noi giù a far domande e loro, persone di middle class, classe media europea, che non sanno darsi una spiegazione del perché il loro figlio ha cominciato a isolarsi, a non parlare più, a diventare molto chiuso in se stesso e a rifiutare qualsiasi scambio con la famiglia. Questo è successo, questi ragazzi sono partiti ma non sono mai più tornati. Tutto questo accade a un adolescente, chi ha figli lo sa: nell'adolescenza può capitare che un ragazzo si chiuda in se stesso, può capitare che non voglia parlare con la madre e con il padre; ma come puoi immaginare che vada a fare una scelta del genere, quando non ci sono elementi oggettivi che possano farlo pensare?

Qui alla Camera abbiamo voluto affrontare il tema dal punto di vista legislativo: il 18 di luglio, quindi pochi giorni fa, abbiamo approvato un provvedimento, che ora è al Senato, per prevenire i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell'estremismo jihadista. Penso che sia un buon testo perché lavora molto su iniziative di integrazione e di dialogo, di prevenzione, si occupa anche dei media perché la radicalizzazione - le autrici ce lo diranno - per la gran parte non avviene in moschea: la gran parte delle radicalizzazioni avviene in carcere e avviene sul web. Allora capite che è importante prevenire, per cui questa proposta di legge ritengo abbia il giusto taglio e mi auguro che venga presa in considerazione anche dall'Assemblea del Senato in tempo utile, prima di fine legislatura.

E' chiaro, le buone leggi non bastano, bisogna essere più presenti dal punto di vista sociale e culturale specialmente nelle periferie, perché è nelle periferie delle città europee che c'è più disagio. Per lo meno nel nostro Paese io nelle periferie sto andando con molta frequenza perché ritengo che lì oggi bisogna lavorare, lì bisogna cogliere la buona politica e anche i segni di preoccupante rivalsa e marginalità. Quindi mi sembra importante capire quelle che sono le ragioni alla base, e il libro "Non aspettarmi vivo" ci aiuta: a capire perché possa essere un disegno di vita concepibile per un giovane; perché un giovane possa vedere Daesh come l'unica possibilità che suscita qualche speranza; perché in assenza di lavoro si arrivi ad arruolarsi, perché comunque c'è bisogno di uno stipendio, c'è bisogno di mantenere una o più famiglie.

Tutto questo ci fa comprendere che noi con l'Africa dovremo sempre di più relazionarci. L'Africa è un continente pieno di risorse, lo sanno bene i nostri amici cinesi, è un continente giovane. Recentemente sono stata in Nigeria: oggi duecento milioni di abitanti, nel 2030 sarà un paese più popoloso degli Stati Uniti d'America. Un paese che arriverà da qui a pochi anni ad una popolazione di 400 milioni. Allora capite che non basta fare le interdizioni a mare, i blocchi navali, mettere fili spinati. Noi davanti abbiamo un continente e abbiamo bisogno di politiche di sviluppo, sviluppo umano, perché non si fa sviluppo senza pensare prima alla persona. Posso andare a investire tutti i soldi che voglio, aprire le aziende e portare via le risorse, ma quello non si chiama sviluppo, lo sviluppo è un'altra cosa: è dare accesso all'istruzione, all'acqua potabile, alla sanità, ai vaccini. Se si prescinde da questo non si chiama sviluppo, non chiamiamo sviluppo il furto delle risorse, lo sviluppo è un'altra cosa. Se vogliamo fare sul serio, se vogliamo vivere in un Mediterraneo che non diventi un vero e proprio cimitero - perché questo è ciò che sta accadendo - noi comunità internazionale dobbiamo occuparci dello sviluppo umano di chi è davanti a noi e cresce molto più di noi e ha molte più risorse delle nostre, e ha voglia di farcela.

Ecco, noi non riusciremo a fermare questo movimento se non saremo in grado di fare un'azione di vero sviluppo. Se non faremo questo saremo noi che finiremo destabilizzati da un'onda che non sapremo più gestire. Quindi io ringrazio le autrici di questo libro perché ci aiuta a riflettere, a pensare a un fenomeno che riguarda tutti: i paesi del Nord Africa, il Medio Oriente, ma sicuramente anche i paesi europei. Grazie per averlo scritto.