29/01/2016
Montecitorio, Sala della Regina

Saluto in apertura del convegno 'Le donne contro DAESH. Il contrasto al radicalismo e al fondamentalismo'

Gentili ospiti, relatrici e relatori, grazie di aver accettato il nostro invito. Utilizzo l'aggettivo 'nostro', al plurale, perché questo incontro - su un tema di grande attualità, che merita un approfondimento esaustivo - nasce per iniziativa dell'Intergruppo parlamentare per le donne, i diritti e le pari opportunità. Un Intergruppo che è un All-Party Women's Caucus : ci sono donne di ogni orientamento politico che hanno ritenuto di voler condividere questa esperienza.

Il convegno di oggi è la prima iniziativa pubblica promossa dall'Intergruppo.

Perché abbiamo sentito l'esigenza di puntare l'attenzione sulla radicalizzazione di matrice jihadista? E perché mettere in evidenza in particolare - ma non solo - il ruolo delle donne nel combattere questa forma di estremismo violento?

In primo luogo perché il tema è di grande attualità: il 2015 è stato l'anno in cui tanti Paesi del mondo, non solo occidentali, sono stati colpiti da una serie di barbari attentati, che hanno causato la morte di centinaia e centinaia di persone. E' accaduto nella nostra Europa, è accaduto in Paesi vicini, ma è accaduto anche lontano da noi: negli Stati Uniti, in Kenya, in Indonesia e in altri Paesi. Dunque non c'è oggi un luogo del nostro pianeta che possa dirsi sicuro e non coinvolto.

Il 2015 è stato l'anno dei rifugiati. In tanti, silenziosi, con molta determinazione hanno deciso di fare una marcia che non ha precedenti verso il cuore dell'Europa. I viaggi a cui eravamo purtroppo abituati erano quelli del mare, che abbiamo visto per anni in grande solitudine avvenire davanti casa nostra, nel Mediterraneo, con migliaia e migliaia di morti. Ricordo che solo l'anno scorso sono morte 3700 persone; l'anno prima 3500; l'anno prima ancora 2300. La lista è lunghissima. Queste cifre denotano che è in corso un vero e proprio conflitto, neanche più a bassa intensità, di cui però pochi si occupano.

Il 2015 è stato invece l'anno della marcia, non più della traversata in mare. Questi richiedenti asilo hanno sifdato fili spinati e muri per ribadire un loro diritto: un diritto che fa parte di tutti gli atti costitutivi dell'Unione europea, il diritto a chiedere e ottenere asilo. Purtroppo sono stati anche strumentalizzati, sono stati fatti quasi ostaggio di una retorica anti-immigrati, a volte razzista, come se loro non fossero quelli che fuggono dai tagliagole dell'Isis, le prime vittime di quella follia, i piùesposti a questi pericoli.

Il 2015 è stato l'anno in cui gran parte del mondo si è unito contro la minaccia rappresentata da DAESH. Lo ha fatto con la risposta militare. Ma io ritengo che non ci si possa limitare a questa. La lotta contro DAESH non può basarsi esclusivamente su una risposta militare, o su una risposta militare senza una strategia politica. La strategia politica è alla base di ogni possibile soluzione. Dovremmo allora fare alcune cose: inasprire i controlli sui flussi finanziari; inasprire i controlli sui traffici di armi, sulle triangolazioni che vengono fatte a volte in modo imbarazzante; impedire che gli Stati della comunità internazionale vadano a comprare il petrolio che viene estratto nei territori di Daesh; dovremmo essere più severi sul commercio dei reperti archeologici che vengono portati via da quei territori e venduti sul mercato internazionale; dovremmo sostenere di più le forze irachene e curde che stanno combattendo; e dovremmo anche sostenere di più i colloqui che devono riprendere a Ginevra - si diceva oggi, ma non è chiaro dalle ultime agenzie se oggi ci si riuscirà. Colloqui dai quali sono esclusi i gruppi terroristici, come è ovvio che sia.

Dovremmo anche incrementare le attività di intelligence - le forze di intelligence hanno dimostrato poca disponibilità a comunicare - dovremmo aumentare gli scambi tra le forze di polizia; dovremmo essere un po' più europei, sentirci parte di un'unica famiglia e dare corpo a questa Federazione di Stati che non riesce a decollare.

E infine dovremmo - e dovremo - prevenire la radicalizzazione alla radice dell'espansione dell'Isis, contrastare la capacità dell'Isis di fare proselitismo, e quindi esercitare molta più presenza sul web, molto più controllo, perché quello è lo strumento attraverso il quale il Califfato si insinua anche nelle nostre società.

Il tema della radicalizzazione va affrontato a più livelli. Qui abbiamo gli esperti, che sapranno dirci nel dettaglio. Ma condivido pienamente l'osservazione fatta da un grande intellettuale, Oliver Roy, che parla della "islamizzazione del radicalismo". Il radicalismo esiste a prescindere, e l'Islam diventa un magnifico strumento. Se c'è islamizzazione del radicalismo, è evidente che c'è anche una radicalizzazione dell'Islam. Ma noi possiamo avere radicalismo anche senza un Islam radicale. Il problema è il radicalismo, le motivazioni che sono alla base del reclutamento di tanti giovani.

Le motivazioni, lasciatemelo dire, hanno poco a che fare con la fede. Perché questi elementi diventano religiosi solo nel momento in cui si convertono all'ideologia più estrema del jihadismo. Così la fede diventa centrale nella loro vita, ma fino ad allora non sembra essere stata così determinante. Su cosa fa leva allora la propaganda di Daesh? Vedo qui tanti giovani. Come si fa a convincere delle ragazze e dei ragazzi a sposare questa ideologia estrema? Si fa leva sui sentimenti di esclusione sociale: sei arrabbiato con il mondo, sei arrabbiato con te stesso, non vedi una prospettiva, aspetti solo che arrivi qualcuno a dartela. Si agisce sulla rabbia: la rabbia di sentirsi ai margini, la rabbia che ti porta a pensare che ci sia una persecuzione ai danni di tutti i musulmani. La rabbia che ha bisogno di concretizzarsi, di materializzarsi in qualcosa che punisca quella che viene avvertita come una grande ingiustizia sociale. E' per questo che Daesh si presenta come l'unico difensore del mondo musulmano, l'unico in grado di riscattare questo orgoglio. E lo fa attraverso il paradiso terrestre del Califfato. Questo è il grande inganno scoperto dai giovani che sono ritornati , che hanno avuto la facoltà di uscire da questo incubo e hanno raccontato ciò che hanno visto. Ma il "paradiso" in verità non è altro che un luogo di violenza, di sopraffazione e di affermazione di un'idea impraticabile, frutto del desiderio di annientare ogni diversità.

In questo contesto, il ruolo delle donne è fondamentale. Lo è per vari aspetti. Intanto perché centinaia e centinaia di donne dai nostri Paesi sono andate a combattere. Ieri ero con il mio omologo tunisino, il Presidente Ennaceur - la Tunisia, come sapete, è il Paese dal quale è partito in proporzione il più alto numero di foreign fighters. Lamentava proprio questo: che insieme ai ragazzi partano anche le ragazze. Parliamo di un Paese che si stima abbia regalato a questo sogno folle tra i 5 e i 6mila giovani: una quota incredibilmente alta, rispetto al numero della popolazione.

Ma le donne sono centrali anche perché sono le prime vittime di Daesh. Lo sono in Iraq, lo sono in Siria: dove vengono schiavizzate, violentate, umiliate. Dobbiamo capire che questa guerra si esercita anche sul corpo delle donne: bisogna annientarla, la donna, per affermare un'ideologia.

Però le donne non subiscono solo Daesh; lo combattono. Non ne sono solo le vittime. Lo combattono le peshmerga curde, con le armi in mano. Lo fanno anche le donne che fuggono dai territori del Califfato, che gettano via quei veli pesanti che sono costrette a portare contro la loro volontà.

E le donne combattono Daesh anche come stanno facendo le nostre ospiti, cioè mettendo in guardia altre madri, facendo capire i segnali inquietanti che portano i figli a sposare questa ideologia. Noi abbiamo qui due testimoni, Saliha Ben Ali e Christiane Boudreau, che ringrazio moltissimo perché, nonostante il dolore di aver perso i loro figli, sono oggi impegnate per fare in modo che questa piaga non si allarghi, mettendo a disposizione le loro esperienze per progetti di recupero dei giovani radicalizzati. E poi abbiamo anche tre esperti di think tank universitari, autori di progetti di recupero che stanno dando buoni risultati.

Da occasioni come questa possono scaturire idee e una preparazione. L'esperienza è la prima componente da mettere in comune nei frameworks in cui si possa lavorare non dividendoci, non contrapponendoci. E' questo che oggi serve: dobbiamo riuscire a confrontare idee unendoci; dobbiamo riuscire a parlare laicamente di questo tema. E farlo con le conoscenze e le esperienze che purtroppo stanno maturando in diversi Paesi europei.

Vi ringrazio dell'attenzione.